RèG 8. Il TEMPIO degli ESSERI VIVENTI
testo e foto di © 2016 Stefano di
Stasio
La nonna era morta da una settimana. Mia madre per
telefono mi aveva comunicato con riluttanza, qualche giorno prima, che era in
agonia e priva di conoscenza. Era stata una corsa frenetica. Treno e autobus
per quasi quarantotto ore per poterla rivedere un’ultima volta. Era spirata
dopo circa mezz’ora che ero arrivato a casa. Come se avesse avvertito la mia
angoscia. Come se sentisse.
Masticavo
questi pensieri, mentre ero seduto sulle rive del fiume sacro. Ripensavo alla
tristezza di qualche giorno prima. Ero a ottomila chilometri da casa, a
Pashupatinath, un sobborgo di Kathmandu, conosciuto in Nepalese come “il Tempio
degli Esseri Viventi”, sacro al dio Śiva. Sui ghat, le piazzole a terrazza in riva al fiume Bagmati, si
affollavano persone vestite di bianco. Si stava svolgendo un altro funerale. La salma era avvolta in un
telo chiaro, ma il volto del defunto era scoperto. Era stata distesa su una
catasta di legna. Il colorito olivastro del morto faceva contrasto con il candore
del telo. Sembrava dormisse. I lineamenti erano distesi e un paio di baffetti
neri sottili ancora luccicavano a incorniciare la bocca. Me ne stavo in
disparte seduto sulla sponda opposta del fiume. Per rispetto al funerale mi
trattenevo a distanza. I parenti del morto spargevano spezie rosse, polvere di
curcuma e riso su un piccolo simulacro nelle vicinanze della pira. Una piccola
aiuola quadrata con al centro un cilindro eretto fatto di fango.
Simboleggiavano l’organo sessuale femminile, lo yoni, e quello maschile, il lingam.
Servivano a celebrare il culto dell’origine della vita e della potenza cosmica,
rappresentati dalle divinità Indù Śakti e Śiva. A qualche metro di distanza,
l’inserviente addetto alle cremazioni accese una fiammella e cominciò a
recitare delle preghiere. A voce alta, percorrendo a piedi il perimetro della
pira con le mani giunte. Versò poi qualcosa, un liquido scuro, nella bocca del
morto che era tenuta semiaperta da una stoffa ritorta. Quando ebbe finito diede
fuoco alla pira in più punti con una torcia. Il tempio degli esseri viventi
stava per celebrare col fuoco la distruzione del corpo. L’acqua del fiume
Bagmati avrebbe portato le ceneri verso il sacro Gange. Un altro essere vivente
avrebbe avuto il dono della creazione da qualche altra parte. Il samsāra, il cerchio delle
reincarnazioni.
Mi
guardai intorno. Su questa riva del fiume erano incastonati sulle terrazze
numerosi piccoli monumenti Indù.
Attorno ad essi si rincorrevano tante scimmiette girovaghe e i
pellegrini erano seduti a meditare.
Era silenzio.
Si udiva il crepitio delle fiamme e una
colonna di fumo si alzava acre verso l’alto. Mi resi conto che l’addetto alla
cremazione era una persona esperta. Doveva essere abile a contenere
l’esuberanza delle fiamme per far durare il fuoco quattro ore circa. Il tempo
necessario affinché il cadavere si consumasse completamente. Potevo scorgere,
risalendo con gli occhi il flusso del fiume per alcune decine di metri, alcune
donne intente a lavare i panni, battendoli ritmicamente sulla terrazza. La vita
e la morte, una accanto all’altra, con semplicità. Volevo bene a mia nonna che
era stata seppellita in una cassa di zinco al cimitero del mio paese in Italia.
Qualcosa mi aveva disturbato quando avevano sigillato la bara, saldando il
coperchio. In questo momento mi piaceva pensare che anche lei avesse potuto
salire in alto nel fumo del fuoco verso il cielo terso e azzurro di
Pashupatinath e le sue ceneri riposare sul ghat
per essere poi affidate alle acque del fiume. Mi piaceva credere che anche lei
si sarebbe un giorno reincarnata, avrebbe continuato a vivere. Mia nonna era
stata brava, aveva cresciuto me e mia sorella. Ci aveva raccontato un sacco di
favole quando eravamo piccoli, a volte inventandole al momento. Aveva avuto
cinque figli e tutti li aveva tirati su bene, con grande soddisfazione del
marito. Mio nonno non era ricco, vivevano in paese, e tuttavia, mia nonna
bastava che cucinasse qualche semplice cosa per improvvisare una festa.
Specialmente le frittelle col sugo e il formaggio.
Circa
un’ora era passata. L’inserviente prese una lunga pertica e si avvicinò alla
pira. Le parti molli del cadavere erano già ridotte in cenere. Allora cominciò
a rivoltare i femori e le tibie per spingerli al centro del fuoco e permettere
la consumazione delle ossa grandi dello scheletro. Anche il teschio e la gabbia
toracica furono rivoltate al centro della catasta. Il fuoco si ravvivò. Passò
altro tempo. A poco a poco cominciò lentamente ad esaurirsi. Del corpo non
rimaneva più nulla. Il fiume sottostante, gonfio d’acqua dalle vicine montagne,
continuava a sussurrare la sua nenia.
L’indomani mattina partimmo per una valle lontana da
Kathmandu, Pokhara. Si trattava di risalire in auto una strada incisa nel
costone a strapiombo sul canalone creato dal letto del Trisuli, un fiume che
scorreva impetuoso giù dall’altopiano circa 200 metri più sotto. C’erano in
giro parecchi militari. Il paese era in fermento. Si avvicinava per la prima
volta la data delle elezioni e il partito maoista era molto forte fra i
contadini delle montagne. Sanat, la mia guida Nepalese, fece cenno all’autista
di fermare. Scese dall’auto e si affacciò sul precipizio. Mi sporsi per vedere.
Sotto
di noi, sul fondo dello strapiombo, un piccolo pullman stava obliquo a metà
sommerso dalle acque del Trisuli.
«E’ giù
da una settimana. Non sanno come recuperarlo»
spiegò Sanat.
Aspettammo
che la strada venisse riaperta. C’era ai bordi della sterrata una casupola dove
si mangiava il dal bat, le lenticchie
col riso e le spezie nel piatto di metallo. Ci lavammo le mani nel bidone
dell’acqua piovana dove se le lavavano tutti i clienti del posto di ristoro.
Non c’erano forchette. I miei amici mi mostravano come appallottolare il riso
basmati e usarlo come il pane.
La
strada fu di nuovo libera e proseguimmo per Pokhara. Arrivammo di sera e fummo
alloggiati in una stanza di una casa bassa illuminata dalle lampade a gas. Non
c’era la luce elettrica. Mi piaceva osservare le ombre sul soffitto proiettate
dalla luce della fiammella. A volte enormi scolopendre traversavano il soffitto
da un lato all’altro. Erano cosi’ veloci che la prima volta che le avevo
scorte, e anche la seconda, mi ero chiesto se avessi visto veramente qualcosa
oppure se me l’ero solo immaginato. Alla fine riposammo.
Il
giorno dopo partimmo per un’escursione sull’altopiano. Sanat ci aveva
raccomandato di coprire tutte le cose delicate con della plastica perché
c’erano da attraversare dei torrenti a piedi e, inoltre, poteva piovere.
Avvolsi con diversi giri di pellicola da cucina la mia borsa che conteneva le
macchine fotografiche e le pellicole.
Cominciammo
a salire su per le risaie. Spesso erano ricavate su dei terrazzamenti dove
veniva accumulata l’acqua per far crescere le piantine di riso. Il verde era
molto intenso e gli alberi radi. Il collega di Sanat ci spiegò di non passare
sotto le piante perché le sanguisughe si arrampicavano sugli alberi e quando
avvertivano le vibrazioni del terreno dovute al passaggio di persone o animali
si lasciavano cadere per attaccarsi e succhiare il sangue. La salita fu dura.
Passammo per un tempio buddista dove si fecero avanti alcuni membri di una
comunità cinese in esilio che commerciavano in souvenir. Erano belle alcune
collane fatte con pezzi di osso. Mentre ne osservavo una, Sanat si avvicinò.
Portavo i pantaloncini corti. Avevamo guadato qualche ora prima un piccolo
fiume. Sanat si inginocchio’ e disse di non muovermi. Con le unghie estrasse
dalla piegatura dietro al mio ginocchio destro una sanguisuga. Da quelle parti
passano grossi vasi sanguigni e la bestiolina era diventata gonfia e sazia.
Torcendo il busto potei osservare i due grossi fori dove si era ancorata sulla
mia pelle. Erano abbastanza grossi ma, stranamente per me, dopo che la
sanguisuga era stata estratta non sanguinavano.
Proseguimmo
nella nostra escursione. Giungemmo ad una baracca sui monti dove ci accolsero
una decina di bambini. Alcuni avevano delle infezioni agli occhi. Un liquido
bianco incollava le palpebre. Questi bambini ci osservavano con l’altro occhio,
sembravano ugualmente contenti, non si curavano del loro male. Aperto il mio
zaino, cercai tutti i disinfettanti che avevo e cercai di mostrare a una bimba
che poteva avere otto anni, come curare l’occhio del fratellino che
probabilmente ne aveva cinque o meno. Le nostre relazioni internazionali
proseguirono fino a tarda sera. Poi i bambini andarono a dormire. Anche noi ci
preparammo per la notte. La mattina dopo il gruppo si divise. Più della metà
decisero di tornare indietro a Pokhara. Proseguimmo in cinque. C’era nebbia.
Camminavamo su una stretta sterrata, fra vapori densi. Non si vedeva granché.
Persi
di vista i miei compagni. Mi ricordo che attraversai dei piccoli villaggi.
Passai accanto ad alcune capanne, poi delle sagome basse scure cominciarono a
attraversarmi la strada. Dal grufolare riconobbi dei piccoli maiali di colore
nero. Non si vedeva anima viva. Tutti i suoni mi arrivavano ovattati
all’orecchio. C’era un senso di grande pace.
Feci
una sosta. Udii dei passi. Dai vapori veniva avanti qualcuno. Sagome vestite di
bianco. Il bianco era il colore della tristezza, quando parte qualcuno. Si’,
erano persone vestite di tuniche bianche che, insieme, trasportavano qualcosa
su una specie di barella ricavata con delle aste. Avvolto da un lenzuolo
trasportavano un corpo. Era un loro parente. Scendevano a valle per la
cremazione.
Proseguii
nella nebbia. Mi ricordo che mi sentivo bene. Soprattutto mi sentivo vivo.
Tutt’intorno quella nebbia di ovatta aveva l’effetto di acuire i miei sensi,
cosi’ come nell’oscurità succede per le pupille che si dilatano.
Arrivammo
alla casa prevista per l’ultimo pernottamento. Ancora ci accolsero con molto
calore. Non capivamo nulla della loro lingua. La padrona di casa mi offri’ un
uovo di gallina che apprezzai. Mi chiedevo quante galline potessero esserci
sull’altipiano e quante di loro potessero produrre delle uova.
Quella
sera mi ricordo, mentre parlavo con Sanat al lume della lampada a gas, di aver
provato un’emozione leggera come di contentezza. La passeggiata sull’altopiano
era stata liberatoria. Avevo capito che la morte era parte di un viaggio
durante il quale si traghetta in un’altra dimensione. Avevo capito che
l’affetto dei familiari può’ essere forte, tanto da non far sentire la fatica
di trasportare un morto per le montagne a piedi per chilometri. Forse per
giorni o settimane. Avevo anche capito che era bello credere nelle
reincarnazioni, perché questo genera rispetto e apertura d’animo per gli altri
esseri viventi, per gli animali e la natura.
Non mi
feci turbare e anzi mi offersi di far compagnia ad una mia compagna di viaggio
che era stata male. Pareva sconvolta, quasi in delirio. Ripeteva frasi senza
senso. La stessa chiave che nella mia mente aveva generato calma infinita,
nella sua aveva fatto muovere e avanzare una moltitudine di oscuri fantasmi. E cosi’
le persone che accompagnavano il morto erano diventate nel suo vaniloquio
persone ostili che volevano ucciderci. I nostri gentilissimi ospiti si
trasformavano in truci sicari. Impiegai due ore per rassicurare la mia compagna
di viaggio. Poi anche lei si calmò e si addormentò.
Ci
svegliammo presto la mattina successiva e ridiscendemmo a valle dove ci
accolsero festosi i nostri amici ritornati a Pokhara anzitempo.
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Copyright 2016 Foto di Stefano di Stasio: tempio Jain nella giungla della zona
di confine fra Nepal e India, estate 1992