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sabato 23 aprile 2016

RèG 8. Il TEMPIO degli ESSERI VIVENTI


testo e foto di © 2016 Stefano di Stasio

La nonna era morta da una settimana. Mia madre per telefono mi aveva comunicato con riluttanza, qualche giorno prima, che era in agonia e priva di conoscenza. Era stata una corsa frenetica. Treno e autobus per quasi quarantotto ore per poterla rivedere un’ultima volta. Era spirata dopo circa mezz’ora che ero arrivato a casa. Come se avesse avvertito la mia angoscia. Come se sentisse.

Masticavo questi pensieri, mentre ero seduto sulle rive del fiume sacro. Ripensavo alla tristezza di qualche giorno prima. Ero a ottomila chilometri da casa, a Pashupatinath, un sobborgo di Kathmandu, conosciuto in Nepalese come “il Tempio degli Esseri Viventi”, sacro al dio Śiva. Sui ghat, le piazzole a terrazza in riva al fiume Bagmati, si affollavano persone vestite di bianco. Si stava svolgendo un altro funerale. La salma era avvolta in un telo chiaro, ma il volto del defunto era scoperto. Era stata distesa su una catasta di legna. Il colorito olivastro del morto faceva contrasto con il candore del telo. Sembrava dormisse. I lineamenti erano distesi e un paio di baffetti neri sottili ancora luccicavano a incorniciare la bocca. Me ne stavo in disparte seduto sulla sponda opposta del fiume. Per rispetto al funerale mi trattenevo a distanza. I parenti del morto spargevano spezie rosse, polvere di curcuma e riso su un piccolo simulacro nelle vicinanze della pira. Una piccola aiuola quadrata con al centro un cilindro eretto fatto di fango. Simboleggiavano l’organo sessuale femminile, lo yoni, e quello maschile, il lingam. Servivano a celebrare il culto dell’origine della vita e della potenza cosmica, rappresentati dalle divinità Indù Śakti e Śiva. A qualche metro di distanza, l’inserviente addetto alle cremazioni accese una fiammella e cominciò a recitare delle preghiere. A voce alta, percorrendo a piedi il perimetro della pira con le mani giunte. Versò poi qualcosa, un liquido scuro, nella bocca del morto che era tenuta semiaperta da una stoffa ritorta. Quando ebbe finito diede fuoco alla pira in più punti con una torcia. Il tempio degli esseri viventi stava per celebrare col fuoco la distruzione del corpo. L’acqua del fiume Bagmati avrebbe portato le ceneri verso il sacro Gange. Un altro essere vivente avrebbe avuto il dono della creazione da qualche altra parte. Il samsāra, il cerchio delle reincarnazioni.

Mi guardai intorno. Su questa riva del fiume erano incastonati sulle terrazze numerosi piccoli monumenti Indù.  Attorno ad essi si rincorrevano tante scimmiette girovaghe e i pellegrini erano seduti a meditare.

Era silenzio. Si udiva  il crepitio delle fiamme e una colonna di fumo si alzava acre verso l’alto. Mi resi conto che l’addetto alla cremazione era una persona esperta. Doveva essere abile a contenere l’esuberanza delle fiamme per far durare il fuoco quattro ore circa. Il tempo necessario affinché il cadavere si consumasse completamente. Potevo scorgere, risalendo con gli occhi il flusso del fiume per alcune decine di metri, alcune donne intente a lavare i panni, battendoli ritmicamente sulla terrazza. La vita e la morte, una accanto all’altra, con semplicità. Volevo bene a mia nonna che era stata seppellita in una cassa di zinco al cimitero del mio paese in Italia. Qualcosa mi aveva disturbato quando avevano sigillato la bara, saldando il coperchio. In questo momento mi piaceva pensare che anche lei avesse potuto salire in alto nel fumo del fuoco verso il cielo terso e azzurro di Pashupatinath e le sue ceneri riposare sul ghat per essere poi affidate alle acque del fiume. Mi piaceva credere che anche lei si sarebbe un giorno reincarnata, avrebbe continuato a vivere. Mia nonna era stata brava, aveva cresciuto me e mia sorella. Ci aveva raccontato un sacco di favole quando eravamo piccoli, a volte inventandole al momento. Aveva avuto cinque figli e tutti li aveva tirati su bene, con grande soddisfazione del marito. Mio nonno non era ricco, vivevano in paese, e tuttavia, mia nonna bastava che cucinasse qualche semplice cosa per improvvisare una festa. Specialmente le frittelle col sugo e il formaggio.

Circa un’ora era passata. L’inserviente prese una lunga pertica e si avvicinò alla pira. Le parti molli del cadavere erano già ridotte in cenere. Allora cominciò a rivoltare i femori e le tibie per spingerli al centro del fuoco e permettere la consumazione delle ossa grandi dello scheletro. Anche il teschio e la gabbia toracica furono rivoltate al centro della catasta. Il fuoco si ravvivò. Passò altro tempo. A poco a poco cominciò lentamente ad esaurirsi. Del corpo non rimaneva più nulla. Il fiume sottostante, gonfio d’acqua dalle vicine montagne, continuava a sussurrare la sua nenia.
L’indomani mattina partimmo per una valle lontana da Kathmandu, Pokhara. Si trattava di risalire in auto una strada incisa nel costone a strapiombo sul canalone creato dal letto del Trisuli, un fiume che scorreva impetuoso giù dall’altopiano circa 200 metri più sotto. C’erano in giro parecchi militari. Il paese era in fermento. Si avvicinava per la prima volta la data delle elezioni e il partito maoista era molto forte fra i contadini delle montagne. Sanat, la mia guida Nepalese, fece cenno all’autista di fermare. Scese dall’auto e si affacciò sul precipizio. Mi sporsi per vedere.
Sotto di noi, sul fondo dello strapiombo, un piccolo pullman stava obliquo a metà sommerso dalle acque del Trisuli.
«E’ giù da una settimana. Non sanno come recuperarlo»  spiegò Sanat.
Aspettammo che la strada venisse riaperta. C’era ai bordi della sterrata una casupola dove si mangiava il dal bat, le lenticchie col riso e le spezie nel piatto di metallo. Ci lavammo le mani nel bidone dell’acqua piovana dove se le lavavano tutti i clienti del posto di ristoro. Non c’erano forchette. I miei amici mi mostravano come appallottolare il riso basmati e usarlo come il pane.
La strada fu di nuovo libera e proseguimmo per Pokhara. Arrivammo di sera e fummo alloggiati in una stanza di una casa bassa illuminata dalle lampade a gas. Non c’era la luce elettrica. Mi piaceva osservare le ombre sul soffitto proiettate dalla luce della fiammella. A volte enormi scolopendre traversavano il soffitto da un lato all’altro. Erano cosi’ veloci che la prima volta che le avevo scorte, e anche la seconda, mi ero chiesto se avessi visto veramente qualcosa oppure se me l’ero solo immaginato. Alla fine riposammo.
Il giorno dopo partimmo per un’escursione sull’altopiano. Sanat ci aveva raccomandato di coprire tutte le cose delicate con della plastica perché c’erano da attraversare dei torrenti a piedi e, inoltre, poteva piovere. Avvolsi con diversi giri di pellicola da cucina la mia borsa che conteneva le macchine fotografiche e le pellicole.
Cominciammo a salire su per le risaie. Spesso erano ricavate su dei terrazzamenti dove veniva accumulata l’acqua per far crescere le piantine di riso. Il verde era molto intenso e gli alberi radi. Il collega di Sanat ci spiegò di non passare sotto le piante perché le sanguisughe si arrampicavano sugli alberi e quando avvertivano le vibrazioni del terreno dovute al passaggio di persone o animali si lasciavano cadere per attaccarsi e succhiare il sangue. La salita fu dura. Passammo per un tempio buddista dove si fecero avanti alcuni membri di una comunità cinese in esilio che commerciavano in souvenir. Erano belle alcune collane fatte con pezzi di osso. Mentre ne osservavo una, Sanat si avvicinò. Portavo i pantaloncini corti. Avevamo guadato qualche ora prima un piccolo fiume. Sanat si inginocchio’ e disse di non muovermi. Con le unghie estrasse dalla piegatura dietro al mio ginocchio destro una sanguisuga. Da quelle parti passano grossi vasi sanguigni e la bestiolina era diventata gonfia e sazia. Torcendo il busto potei osservare i due grossi fori dove si era ancorata sulla mia pelle. Erano abbastanza grossi ma, stranamente per me, dopo che la sanguisuga era stata estratta non sanguinavano.
Proseguimmo nella nostra escursione. Giungemmo ad una baracca sui monti dove ci accolsero una decina di bambini. Alcuni avevano delle infezioni agli occhi. Un liquido bianco incollava le palpebre. Questi bambini ci osservavano con l’altro occhio, sembravano ugualmente contenti, non si curavano del loro male. Aperto il mio zaino, cercai tutti i disinfettanti che avevo e cercai di mostrare a una bimba che poteva avere otto anni, come curare l’occhio del fratellino che probabilmente ne aveva cinque o meno. Le nostre relazioni internazionali proseguirono fino a tarda sera. Poi i bambini andarono a dormire. Anche noi ci preparammo per la notte. La mattina dopo il gruppo si divise. Più della metà decisero di tornare indietro a Pokhara. Proseguimmo in cinque. C’era nebbia. Camminavamo su una stretta sterrata, fra vapori densi. Non si vedeva granché.
Persi di vista i miei compagni. Mi ricordo che attraversai dei piccoli villaggi. Passai accanto ad alcune capanne, poi delle sagome basse scure cominciarono a attraversarmi la strada. Dal grufolare riconobbi dei piccoli maiali di colore nero. Non si vedeva anima viva. Tutti i suoni mi arrivavano ovattati all’orecchio. C’era un senso di grande pace.
Feci una sosta. Udii dei passi. Dai vapori veniva avanti qualcuno. Sagome vestite di bianco. Il bianco era il colore della tristezza, quando parte qualcuno. Si’, erano persone vestite di tuniche bianche che, insieme, trasportavano qualcosa su una specie di barella ricavata con delle aste. Avvolto da un lenzuolo trasportavano un corpo. Era un loro parente. Scendevano a valle per la cremazione.
Proseguii nella nebbia. Mi ricordo che mi sentivo bene. Soprattutto mi sentivo vivo. Tutt’intorno quella nebbia di ovatta aveva l’effetto di acuire i miei sensi, cosi’ come nell’oscurità succede per le pupille che si dilatano.
Arrivammo alla casa prevista per l’ultimo pernottamento. Ancora ci accolsero con molto calore. Non capivamo nulla della loro lingua. La padrona di casa mi offri’ un uovo di gallina che apprezzai. Mi chiedevo quante galline potessero esserci sull’altipiano e quante di loro potessero produrre delle uova.
Quella sera mi ricordo, mentre parlavo con Sanat al lume della lampada a gas, di aver provato un’emozione leggera come di contentezza. La passeggiata sull’altopiano era stata liberatoria. Avevo capito che la morte era parte di un viaggio durante il quale si traghetta in un’altra dimensione. Avevo capito che l’affetto dei familiari può’ essere forte, tanto da non far sentire la fatica di trasportare un morto per le montagne a piedi per chilometri. Forse per giorni o settimane. Avevo anche capito che era bello credere nelle reincarnazioni, perché questo genera rispetto e apertura d’animo per gli altri esseri viventi, per gli animali e la natura.
Non mi feci turbare e anzi mi offersi di far compagnia ad una mia compagna di viaggio che era stata male. Pareva sconvolta, quasi in delirio. Ripeteva frasi senza senso. La stessa chiave che nella mia mente aveva generato calma infinita, nella sua aveva fatto muovere e avanzare una moltitudine di oscuri fantasmi. E cosi’ le persone che accompagnavano il morto erano diventate nel suo vaniloquio persone ostili che volevano ucciderci. I nostri gentilissimi ospiti si trasformavano in truci sicari. Impiegai due ore per rassicurare la mia compagna di viaggio. Poi anche lei si calmò e si addormentò.
Ci svegliammo presto la mattina successiva e ridiscendemmo a valle dove ci accolsero festosi i nostri amici ritornati a Pokhara anzitempo.

® Riproduzione riservata. Contenuto soggetto a copyright 2016 di Stefano di Stasio. La riproduzione, anche parziale, deve essere autorizzata per iscritto dall’autore

© Copyright 2016 Foto di Stefano di Stasio: tempio Jain nella giungla della zona di confine fra Nepal e India, estate 1992


PROPOSTA MUSICALE per accompagnare la lettura del racconto:







domenica 17 aprile 2016

RèG 7. CANTO  PER  I  DEFUNTI


testo e foto di © 2016 Stefano di Stasio

Che tu possa camminare col capo levato,
vigile, nelle verdi praterie
e solcare l’acqua del mare,
che grigio e potente
lambisce le terre bianche dei nostri padri.

Che tu possa ascoltare sempre
il rumore delle onde e il verso del falco,
che parlano al tuo cuore.

Che tu possa avere sempre,
nella tua mano sinistra, il libro della vita
e, nella mano destra, stringere forte la spada,
che può dare la morte.


® Riproduzione riservata. Contenuto soggetto a copyright 2016 di Stefano di Stasio. La riproduzione, anche parziale, deve essere autorizzata per iscritto dall’autore.

PROPOSTA MUSICALE per accompagnare la lettura del racconto:

https://www.youtube.com/watch?v=i3eQ6kFyfFA




martedì 12 aprile 2016

12 Aprile 2016 - Muore Roberto Casaleggio



GIANROBERTO


Gianroberto hai ragione, il paese è stato distrutto.

Gianroberto, ti ringrazio perché hai fondato il Movimento
nel giorno di San Francesco,
il santo più eretico di nostra matrigna chiesa.

Gianroberto, non sarai mai morto, 
la nostra speranza vive con la tua speranza.
Gianroberto, io non ti ho mai conosciuto,
e ti piango come un mio valoroso compagno.

Gianroberto, ti ringrazio per il sorriso mai dato.

Gianroberto, onoreremo la tua e la nostra idea,
perché avevi ragione, Gianroberto:
«è difficile vincere contro chi non si arrenderà mai.».

Ribellarsi è Giusto, Gianroberto.
Per sempre mio fratello.
Arrivederci.

Stefano di Stasio

© 2016 Stefano di Stasio





sabato 9 aprile 2016

RèG 6. I SETTE CAVALIERI di LEMBERG



testo e foto di © 2016 Stefano di Stasio


C’era una volta.
Erano quasi tutte donne. Arrivavano la domenica mattina con dei furgoni verso le otto. La targa bianca e gialla, Ucraina. Sul parabrezza del furgone un cartone con scritta a mano con il carboncino la città di provenienza. Kiev, L’viv.
Arrivavano portando cartoni legati con lo spago, poche cose semplici vestiti, a volte una valigia. Sempre casse di birra venivano scaricate dai furgoni.
Alcune più belle con pochissimo bagaglio. Avevano già il telefonino. Appena arrivate salivano in una Mercedes bianca guidate da figuri sulla sessantina e si appartavano nei campi vicini. Cacciare moneta vedere cammello. I protettori volevano un assaggio subito della loro merce.
Altre più anziane sopra i cinquanta, piccole di statura e faccia da contadina sembravano spaesate e si guardavano attorno. Trovavano un po’ di casa, qualcuno aveva improvvisato una bancarella di salsicce.
Gli autisti stanchi bevevano e fumavano parlando fra loro. Fra quattro, cinque ore avrebbero dovuto invertire la rotta. Caserta-Kiev, Caserta-Lviv, Caserta-Karkiv, Caserta-Ternopyl.

Qualcuna di loro era veramente imponente e si avviava subito giù per la strada che portava alla città. Parlavano fra loro, sapevano dove andare avevano già lavoro. Molte erano dell’Ukraina dell’est e parlavano Russo: «holodny sigodnia, ХОЛОДНЫЙ  СЕГОДНЯ, freddo stamattina; rabota horasciò, РАБОТА ХОРOШО, lavoro tutto bene.».

Molte erano sfacciate e decise a tutto venute nel west dell’impero a cercare fortuna senza scrupoli. Si vedeva che erano decise. Altre molto meno, avevano paura. Il viaggio lo avevano comprato prendendo soldi in prestito da delinquenti. Casomai avevano la vita dei figli come ipoteca, laggiù nelle loro case in Ucraina. Venivano perché come dice la mia amica Olga, in Ucraina uomini morire giovani. Spesso alcolizzati o suicidi.

Ne avevo conosciuta una sulla cinquantina, una faccia pulita. Era piccola nell’aspetto, si chiamava Maria. Maria era vedova, aveva due figli ormai grandi e niente più da fare al paese suo, un villaggio vicino a L’viv, vicino ad un bosco.
Veniva in Italia per rifarsi una vita. Aveva dato il suo passaporto ad una caporale polacca che gestiva il collocamento. Glielo avrebbe restituito pagando la sua intermediazione con i primi tre stipendi.
La caporale le aveva trovato un lavoro presso un anziano signore e la sorella, entrambi non sposati entrambi di sulla settantina, ricchi di famiglia e ignoranti di vocazione. Erano ancora autosufficienti ma non avevano mai fatto le faccende di casa. Prima assumevano un’Italiana ad ore. Poi avevano deciso di tagliare le spese. Il signore viveva in un appartamento del centro e la sorella in quello al piano di sotto dello stesso stabile. Le case erano grandi e c’erano un sacco di cose da fare. Avevano deciso di pretendere uno sconto speciale. La nuova domestica avrebbe tenuto in ordine entrambe le case, con un solo stipendio. Cercavano una schiava. L’avevano detto alla caporale. Vogliamo una polacca docile che non faccia storie e non pretenda. Loro chiamavano polacche tutte le donne dell’Est.
La caporale aveva risposto che ci voleva una clandestina, perché si sa che le fuorilegge non esistono e se non esistono non possono andare dai Carabinieri.
Quindi avevano assunta Maria quando era arrivata abusivamente senza uno straccio di contratto. La caporale aveva mostrato loro il passaporto, poi se lo era rimesso in tasca.
L’avevano istruita bene. Non devi mai rispondere o usare il telefono. Oltre che taccagni, il veto serviva a evitare brutte sorprese, per esempio indagini delle forze dell’ordine o richieste di aiuto e conforto.

Al veto era seguito il lavoro, massacrante. E le angherie. Una volta Maria aveva dimenticato un abito nel salotto. La rappresaglia della zitella era stata decisa. Via dalla finestra nel cortile di casa tutte le cose di Maria, anche lo spazzolino e la foto dei figli e dei nipoti che teneva sul comodino per ricordarsi di dove veniva.
Il fratello dell’anziana maliarda non era particolarmente cattivo ma lasciava fare alla sorella che, d’altra parte, aveva sempre comandato in quella casa. Lui aveva poca dimestichezza con le donne e le temeva. Per questo non si era sposato.
La domenica la lasciavano uscire al pomeriggio ma le assegnavano già qualcosa da fare per le otto. Cosi’, tanto per ricordarle che i padroni erano loro.

Maria la vedevo perché andavo a pagare l’affitto di casa mia. I proprietari erano la signora di mezz’età e il signore.
Quando andavo era gentilissima, io le chiedevo con parole di russo raffazzonato:
«Kak dielà? КАК  ДЕЛА’ ? come stai ? »

Lei rispondeva, sorridendo: «horasciò ХОРОШО’!».
«Ti viejliviji, bolscioi horasciò ТЫ  ВЕЖЛИВЫЙ,  БОЛЬШОЕ  СПАСИБО»,  sei gentile, grazie mille. E non si lamentava mai.

Passarono i mesi velocissimi quell’anno. L’inverno era stato caldo e l’estate africana si avvicinava a grandi passi.
All’inizio del mese di maggio andai a pagare l’affitto. Il signore e la signora non c’erano.
Mi aprì la porta Maria. Era pallida come un cencio e aveva gli occhi lucidi.
Come stai Maria ?
«Non troppo bene, nje ocin horasciò НЕ ОЧЕНЬ  ХОРОШО’…».
Mi raccontò che era stata male aveva un dolore all’utero. Diceva che ce l’aveva sempre da un po’ di giorni. Aveva chiesto alla signora di essere visitata da un medico. Il rifiuto era stato secco. Lei non esisteva, perciò non poteva ammalarsi. Aveva avuto delle emorragie alle quali aveva posto dei rimedi rurali delle sue parti, ghiaccio e decotto di camomilla. Lei aveva bisogno di lavorare e aveva un terrore perso di perdere il lavoro. Non avrebbe saputo dove andare. La caporale aveva voluto altri soldi.

La signora entrò dalla porta all’improvviso e mi sorprese che parlavo con Maria. Fece una smorfia.
Poi mascherò la sua ira, con un sorriso di convenienza. Sapeva che le portavo i miei soldi e li pretendeva. Pagai e me ne andai con la ricevuta.

Quella sera ripensavo alla storia. Date le premesse una denuncia non avrebbe risolto la situazione. La legge non è la giustizia, nessun giudice può imporre a un datore di lavoro di non licenziare.

La mia immaginazione corse via per il cielo stellato. C’era una luna bellissima, quasi piena. Quella notte sognai.

Nel sogno vidi Maria che soffriva in silenzio, veniva umiliata quasi in continuazione la’ in quella casa alla periferia della città. Poi alzai lo sguardo come un falco che si libra con una corrente ascensionale e vidi pi lontano. Non mettevo bene a fuoco ma in direzione della pianura mi sembrava di vedere una nuvola di polvere.

Sforzavo lo sguardo e contemporaneamente tendevo le orecchie per percepire qualche rumore. Niente, troppo lontana la nuvola. Ma si stava avvicinando e diventava sempre più grande. Vedevo qualcosa nella polvere Quando furono in corrispondenza della collina, di la’ dalla quale sorge la città, cominciai a distinguere delle sagome scure e si sentiva qualcosa. Si c’era del rumore, ma era ancora confuso. Poi sempre più chiaro. Erano cavalli al galoppo. Si vedevano bene ora. Scuri, enormi e sopra qualcuno li cavalcava. Poi c’era una macchia biancastra nel gruppo.

Si erano fatti vicini. Le distanze non si riuscivano a distinguere bene, ma il rumore degli zoccoli ora era forte. Sembravano tantissimi. I contati erano sette cavalli scuri e uno bianco. Mi sono sempre piaciuti i cavalli. Gli scuri sembravano Irlandesi, quello bianco un Arabo. Erano bellissimi. Sui cavalli, dapprima un po’ buffi delle persone vestite strane. I vestiti luccicavano al sole. Ma come era possibile. Non pioveva da settimane.

Poi li vidi e ne rimasi un po’ intimorito. Erano cavalieri in arme, con le maglie di ferro e la spada. Le chiome folte, portavano la barba. Facevano paura. Voltarono vicino al cimitero e, strizzando gli occhi, riuscii a distinguerli, S'indirizzano verso la casa del signore e della signora. Mi chiesi, perché ?
Volai più vicino, per un falco è un gioco da ragazzi volteggiare a tutte le quote, quasi senza battere le ali.

E così vidi. Erano venuti a prendere Maria. Era uscita contenta, felice nel sole. Fuori dalla casa delle sofferenze e delle mortificazioni. Era salita, issata di peso su uno degli Irlandesi. Aveva scambiato qualche battuta con i cavalieri in arme.

Poi si erano dati un cenno e via al galoppo. Maria tornava a Lemberg, finalmente. Come una principessa, scortata dal suo maestro d’arme e dai suoi cavalieri più valorosi.

® Riproduzione riservata. Contenuto soggetto a copyright 2016 di Stefano di Stasio. La riproduzione, anche parziale, deve essere autorizzata per iscritto dall’autore



Foto di © 1994 Stefano di Stasio - Kathmandu, Pasciuphàtinat: Il tempio degli esseri viventi


PROPOSTE MUSICALI per accompagnare la lettura del racconto:

9:54 minuti


venerdì 1 aprile 2016

RèG 5. Caporetto 24/10/1917.
Fanti dei Monti Tifatini in trincea.


Testo e foto sono © 2016 Stefano di Stasio


Mi chiamo Umberto D’Assould, sono piemontese, classe 1874, grado Tenente-Colonnello del Regio Esercito dei Savoia, figlio cadetto di una famiglia nobile, va beh, diciamo sicuramente ricca, di Asti. I miei hanno 100 ettari di vigneto e sono stati amici personali del Conte di Cavour fino alla sua morte nel 1861. Mi sono arruolato nell’esercito sabaudo nel 1890, ho velocemente scalato tutti i gradi, diciamo che un po’ mi ha spinto l'amicizia con l'Associazione Agraria e i discendenti dei banchieri De La Rüe, dei quali era amico il Conte, un po’ non ho guardato in faccia a nessuno, specialmente a donne e bambini quando ci ordinavano le rappresaglie.
Chissà perché i miei colleghi più anziani quando si tratta di tagliare con le proprie mani una testa o mozzare una lingua, o infilzare una donna incinta, si fanno mille scrupoli. A me piace il sangue. Li vedi che tremano che soffrono,  per loro morire è una liberazione, alla fine fai del bene. Piuttosto che mandarli nelle galere dove abbiamo mandato i patrioti borbonici del sud, ma che dico i briganti del sud che si sono arresi dopo il 1865.
Poveri pidocchiosi, li abbiamo sistemati bene nella casamatta sotto i monti, sono morti di fame e di freddo. Non sono neanche essere umani questi terroristi: lunghe barbe, puzzano di capra, non hanno mai fatto un bagno in vita loro.
Io personalmente li ho visti nelle immagini a dagherrotipo che ha scattato mio padre, il maresciallo del Regio Esercito Jean-Pierre D’Assould, con un attendente che reggeva quattro picche, ciascuna con la testa infilzata di un brigante morto.

Ma questa è acqua passata. Ora con la grande guerra, tocca sopportarceli di nuovo questi maiali meridionali. Li abbiamo arruolati in blocco anche a 16 anni, mica vogliamo morire noi piemontesi, che vadano loro all’attacco fuori della trincea, sono carne da cannone. Di nuovo, per loro è meglio morire qua, al fronte di Caporetto, che di tubercolosi o fame a casa loro in quegli sperduti villaggi del sud dove nessuno sa leggere e scrivere, gli istruiti sono solo il parroco e il prefetto. Forse il parroco nemmeno, ché Dio non li legge i messaggi scritti, ah, ah, ah. Ma che dio, io sono Dio in questa trincea fangosa e piena di sorci. Comando tutti a bacchetta, scattano come le molle quando passo.
L’altro giorno uno di questi tosi calabresi, con una scheggia di granata che gli aveva squartato l’intestino, mi ha sussurrato mentre crepava: «Comandante, ho paura, non voglio morire», e io a lui: «Coraggio soldato, qui almeno si muore per la Patria, prima di noi piemontesi una patria voi del sud nemmeno ce l’avevate! Che vi avevano fatto credere i Borboni? Che potevate prosperare senza pagare troppe tasse e senza servizio militare obbligatorio? Ricordati che chi non serve il Re del Regno Savoia, allora non serve nemmeno alla Regina? Capito ragazzo? E ora sbrigati a crepare che mi serve la barella e non posso sprecare altre bende! ».

Che porci! Figuratevi che qualche volta non hanno il coraggio di uscire all’assalto dalla trincea per andare contro gli Austriaci, nella terra di nessuno. Eppure li rimpinziamo di grappa a questi qua. Dicono che a loro non piace, che è amara. Vogliono il vino fragola che imbecilli. Come fanno le fragole dalle loro parti a fare il vino, idioti pezzenti!

L’altro giorno uno di loro voleva tornare indietro aveva paura durante l’assalto. Gli ho intimato «Avanti soldato, all’attacco! Savoia! » lui si è messo a piangere e se l’è fatta sotto, là in mezzo ai reticolati. Non andava avanti. Di nuovo gli ho urlato dalla torretta « Avanti, vigliacco! », non si è mosso. Gli ordini del generale Cadorna, mio corregionale, sono chiari, siamo soldati veri e anche Piemontesi. Nel dispaccio stava scritto: «Chiunque si rendesse responsabile di atti di codardia, sia immediatamente passato per le armi dall’ufficiale di picchetto di turno durante l’assalto.».
Così gli ho sparato alle spalle, non se lo aspettava, guardava davanti verso gli Austriaci, pensava di doversi coprire dai colpi solo da quella parte. Vigliacco!
I suoi corregionali mi hanno guardato torvi, ce n’è uno con gli occhi grandi e i capelli biondini, si chiama Stefano di Stasio, classe 1898, viene da giù in Terra di Lavoro, faceva il falegname al suo paese. È colto per essere un meridionale, qualcuno che spia i soldati per me mi ha detto che è un carattere ribelle. Mi ha guardato e da lontano, ha mosso le labbra, guardandomi fosco, ha urlato qualcosa, ho sentito «t’ facimm’ a pell’, om e’ sfaccimm’» ma forse non ho sentito bene, io non li capisco con questo loro dialetto mezzo spagnolo, mezzo francese e mezzo bastardo arabo.

E chi non ci è passato per il meridione. Abbiamo fatto bene noi a mandare quel mercenario da due soldi Garibaldi. Ci ha consegnato il Sud su un piatto d’argento, e grazie! Con tutti i soldi che gli avevamo dato per corrompere gli ufficiali borbonici. Gli inglesi con le loro navi ce li siamo comprati direttamente, prima dello sbarco a Marsala. E via così, abbiamo, giustamente, preso come bottino di guerra l’oro del banco di Sicilia e del banco di Napoli. A noi serve per fare le guerre, avevamo i debiti prima.
Poi c’è sempre qualche altra cosa da sgraffignare, mio padre si è portato un telaio di San Leucio da Caserta. L’abbiamo venduto a un commerciante di stoffe di Como, ci abbiamo guadagnato 500 denari e abbiamo comprato altri 10 ettari di vigna a Cuneo. Tanto a loro, dico a quelli di san Leucio, gli operai del socialismo di borgata di Ferdinando II, a che cosa servono più? Metà li abbiamo ammazzati, le donne le abbiamo stuprate e i giovani li abbiamo deportati in Piemonte nelle risaie.

Ma chissà che ha imprecato quel porco, Stefano da Tuoro, paese alle falde del monte Tifata, nel distretto Terra di Lavoro. Pensa di impressionarmi. A me? Quando torniamo, se è ancora vivo, lo metto in punizione, così non mangia per due giorni, quel villano sottoposto.

Sono passati 4 giorni. Siamo andati di nuovo all’attacco, l’esercito Savoia è in rotta su tutto il fronte sul fiume Isonzo. Abbiamo sbagliato a non far saltare tutti i ponti prima della ritirata. Gli Austriaci hanno sfondato il fronte a Caporetto e ci stanno massacrando. Comunque io, personalmente, non mi curo di quello che sta succedendo e succederà, non nutro più alcun interesse, sofferenza o dolore.

Quel gruppo di schifosi meridionali che venivano dai monti Tifatini e da altri due paesi del picio, Maddaloni e Amorosi, sono andati all’assalto con me ieri. La mitragliatrice austriaca falciava seminando la morte fra loro, si udiva un crepitio incessante di colpi. Ho minacciato i codardi perché andassero incontro alle pallottole. Ho puntato di nuovo il mio revolver contro uno di loro. Mi hanno sparato alle spalle questa volta, quel gruppo di bestie meridionali.
E mentre stavo crepando quello Stefano di Stasio e un altro, soldato Domenico Natale, tutte e due dei paesi sotto i Monti Tifatini di Terra di Lavoro, si sono avvicinati a me; e poi dopo si sono fatti sotto i soldati Antimo Cecere di Maddaloni e Pasquale Pacelli di Amorosi; e tutti e quattro, uno alla volta, mi hanno sputato in faccia, dicendo «mo’ tocc’ a te a’ muri’, si’ na chiavech’ e’ omm’ », o qualcosa del genere, io non li capivo.



® riproduzione riservata. Testo e foto sono © 2016 Stefano di Stasio. La riproduzione, anche parziale, deve essere autorizzata per iscritto dall’autore




Immagine del revolver modello 1889 tipo B in dotazione agli ufficiali del Regio Esercito durante la prima guerra mondiale. Tratto dal sito:
http://www.studirisorgimentali.org/ARMI%20MILITARI%20IN%20USO%20NEL%20REGNO%20D'ITALIA.htm


...e il destino guidò la mano (tremola) di Paolo sull'infido mouse, facendogli ritrovare questo bel documento che giro volentieri ai lettori di PeF... n.d.r. Stefano di Stasio

http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=24735#more-24735