RèG 20. PAPAVERI ROSSI
testo © 2017 Stefano di Stasio, foto © 2017 Stefano di Stasio
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Mi chiamo Udo Svengborg e da mio nonno Erik ho ereditato il dono della premonizione. Mio nonno credeva ancora nei vecchi Dei e sul comodino teneva un’immagine votiva di Thor, raffigurato mentre uccide un drago a martellate. Lui mi diceva che nella nostra famiglia c’è sempre stato qualcuno che sapeva leggere il futuro tramite l’osservazione attenta della natura, dal verso degli animali selvatici oppure da un volo di uccelli o dalla forma cangiante del fuoco. La nostra famiglia è molto antica, veniamo dalla Scandinavia. Anche mia madre, che si chiama Giovanna ed è nata a Maddaloni, vicino Caserta, tiene sul comodino una figurina votiva, da quando mio padre Frederik è morto di infarto, tanti anni fa. L’immaginetta raffigura San Michele Arcangelo che uccide un drago con la lancia. Quando si dice le coincidenze! Beh, non c’è dubbio, senza il destino favorevole, io non sarei nato neppure. Mio padre Erik quando era un ragazzo, conobbe mia madre mentre era in vacanza in Italia, lei vendeva la frutta per strada sul camioncino, assieme al fratello. Si piacquero. La mise incinta e se la sposò, e poi nacqui io. Per partorire mio padre tornò in Scandinavia, da mia nonna Inge a Göteborg, in Svezia nella contea di Västra Götaland, la “Terra degli Dei”. Mi diedero il nome Udo, a mio padre piaceva un cantante tedesco che si chiama così. Che cazzo di nome, però! Mio padre Frederik Svengborg era pescatore di merluzzi, aringhe e saraghi. Con la sua barca di legno e un vecchio motore diesel, ha percorso durante tutta la sua vita i fiordi della costa meridionale della Norvegia. Con quella, prima di conoscere mia madre in Italia, ha percorso molti dei fiordi aperti sulle coste meridionali della Norvegia, da Bergen a Bodø. Era capace, d’estate, di partire da Göteborg e di stare via in mare per due settimane di fila, mio padre. D’estate ci portava con tutta la famiglia, io, mia madre e i miei due fratelli, alle isole Lofoten per la pesca del merluzzo artico, la Lofotfisket.
Noi altri avevamo una hytte, una
casetta, là sul fiordo di Røsk. Mio padre il merluzzo lo chiamava torsk e
diceva che la nostra famiglia l’andava a pescare da cinquecento anni e forse
anche di più. Diceva che il mare era pieno zeppo di merluzzi che venivano a
riprodursi alle isole Lofoten dopo aver svernato nelle acque gelide del mare di
Barentz. Era uno spasso per noi bambini andare al porto e chiedere il permesso
ai pescatori di tagliare le lingue dei grossi merluzzi, ce le rivendevamo alla
signora Annika del ristorante nel porto che le faceva fritte per i suoi clienti
e i turisti, le lingue fritte di torsk erano una specialità locale. D’estate la
sera, in giugno, c’erano solo 4 ore di oscurità e poi il sole risaliva
lentamente sulla linea dell’orizzonte. Dopo cena mio padre continuava a
affumicare il merluzzo, e io con i miei fratelli giocavamo sulle rive dei
fiordi o andavamo a pescare con le barche di legno. Inventavamo delle storie.
Fu così che mi accorsi di avere il dono della premonizione, raccontando quello
che mi passava in mente fra i riflessi dorati del sole di mezzanotte, prossimo
alla linea di confine fra cielo e terra. D’altra parte le isole Lofoten
ispirano la fantasia, il nome Lofoten significa la zampa della lince, la
disposizione delle isole nel mare grigio e potente ricordarono questo animale
ai nostri antenati. Successe che mio fratello Markus, uscì di sera in barca,
aveva una lanterna per attirare i pesci. Lui aveva quindici anni, io undici.
Preferivo rimanere con mia sorella Linda la sera, a raccontarci le storie
attorno al fuoco, e lo lasciammo andare da solo. Stavo raccontando una storia
che mi aveva narrato mio nonno, su una nuvola che non sapeva far piovere e si
disperava, poveretta, cercando di imparare a
piangere, finché Odino le disse che solo l’amore l’avrebbe guarita. E
così fu. La nuvola si invaghì di un cirro, un bel cirro con tanti riccioli che
al tramonto si illuminavano di viola e grigio, nelle notti d’estate. Poi il
cirro fu rapito dal vento e la nuvola ne ebbe tanto dolore che cominciò a
piangere a dirotto per la perdita dell’amato. Mia sorella Linda mi ascoltava
con attenzione e alla fine si intristì anche lei, non era una storia allegra,
io cercavo di consolarla. Poi, nel fuoco, vidi per la prima volta quello che stava
succedendo a Markus. Lo vidi distintamente come se fosse lì accanto a noi, le
lame di fuoco mi portarono nel fiordo a largo dove stava in quel momento mio
fratello. E vidi. Vidi la lanterna che si capovolgeva e il cherosene che si
riversava nella barca avvolgendola nelle fiamme. Vidi Markus che cercava di
spegnere l’incendio, ma era avvinghiato nella rete che si era portato dietro.
Ebbi un sobbalzo e avvertii mio padre. Mio padre corse alla sua barca a motore
e si allontanò in fretta ripercorrendo il fiordo. Fece appena in tempo, la
barchetta di Markus aveva appena preso fuoco, mio padre riuscì a spegnere
l’incendio con il suo idrante, quello che usa per pulire il ponte della sua
imbarcazione. Da allora divenni popolare fra i ragazzi di Västra Götaland, venivano
da me per sapere le cose più strane, ma soprattutto per sapere delle ragazze
che conoscevano nei loro viaggi. Si rivolgevano a me, quando le fidanzate li
lasciavano per qualcun altro, e loro soffrivano pene d’amore per sapere se il
destino avrebbe chiesto loro conto. Io li accontentavo e iniziai in questo modo
a prestare la mia voce per dare alito di vita ad oscure premonizioni, andando a
pescare nella parte più malvagia della mia anima tormentata. Una volta venne un
mio amico Sven, detto costola rotta, perché si era fratturato una costola due
volte. Era umiliato, la sua ragazza gli aveva dato un appuntamento nel bosco di
betulle vicino a una cascata e si era fatta trovare a scopare con un altro, e
mentre lui si avvicinava, aveva cominciato a gemere forte di piacere adulando
l’asta dura del suo nuovo partner. Tutti lo sapevano che Sven costola rotta ce
l’aveva piccolo e a quella troia non le bastava evidentemente. Ma Sven aveva
buon cuore, e allora l’ira del vento volò fino all’anima mia e cominciai a parlare
sommessamente: “Vedo nel cielo grandi corvi che volteggiano in circolo,
percorrendo orbite sempre più strette. E sulla terra la ragazza che ti ha
abbandonato. E vedo lei sdraiata con la schiena a terra e incatenata, nuda, e
le formiche, sì le formiche, un milione di formiche che percorrono affamate i
suoi orifizi, anale e vaginale, e si insinuano negli occhi per abbeverarsi dei
suoi umori. E poi i corvi si poggiano ai piedi della ragazza e cominciano a
beccare incuriositi le formiche. Quindi si avvicinano al volto di lei, che è
ormai nero perché si è ricoperto dalla miriade di formiche. E gli occhi di lei,
sì, i suoi occhi… e i corvi che si affilano il becco su pietre lucenti e poi si
avvicinano a lei e le cavano gli occhi con una sola beccata. E attorno alla
ragazza che urla la sua disperazione, scende la tenebra, nera, spessa come la
pece. Questo io vedo.” Sven prima si consolò, poi si dispiacque, anche se era
una troia, l’aveva voluta bene. Era un bravo ragazzo Sven, davvero. Anche Jan,
che è più anziano e lavora alla falegnameria, era stato lasciato da una donna,
una donna perversa e laida, tutti la conoscono, e tutti la evitano. Ma Jan ha
la testa dura, e tutti lo sanno. Aveva iniziato una relazione con lei, la donna
piano piano l’aveva spogliato di tutti i suoi beni. Jan aveva cominciato a
bere, per consolarsi della sua rovina e la donna non l’aveva più voluto vedere,
si era messa con l’aiutante della guardia costiera, che gliele aveva suonate a
Jan, suonate di santa ragione. Anche per Jan, fui percorso dal vento divino e
cominciai a lamentarmi, sommessamente, e a emettere gemiti come di un cane
ferito, finché uscì dalla mia gola un filo di voce che suonò così:: “Vedo
nell’acqua del torrente che scende dalla montagna bucata, una pioggia, pioggia
rossa, una moltitudine sterminata di gocce di sangue e ogni goccia che racconta
una storia di come la donna che così ti ha ridotto, soffrirà mille e più di
mille pene, prima di morire. E vedo un milione di vermi rossi e neri che le
divorano la lingua e il clitoride, e di come si intrecciano tessendo la tana
nella sua vagina e nel suo intestino, e di come là, in queste due cavità del
suo corpo si riproducono ancora di più, e di come invadono tutto il suo corpo.
E vedo che la donna urla, e urla ancora, ma nessuno la ascolta, e vedo
solo la civetta che ne ha pietà e
che le risponde con un acuto verso intermittente, appollaiata sopra un ramo
nelle tenebre illuminate dalla luna, in fondo al bosco. Questo io vedo…”. Eh
sì, così andavano le cose, quando eravamo giovani a Götaland. Quando ebbi 16
anni, mio padre Frederik si stufò di uscire a pesca tutti i santi giorni e
decise di mettersi nel commercio del baccalà. Adesso gli altri pescavano ed
essiccavano il torsk, lui curava l’amministrazione della cooperativa di
pescatori. E venne il giorno che mio padre decise di mettersi in proprio e di
lasciare la Norvegia per trasferirsi a Roma, aprendo la sua ditta import-export
di prodotti del mare sul litorale laziale vicino a Civitavecchia.
Ho finito le scuole a Roma, mi
diplomai perito agrario. Da allora ho lavorato nella ditta di mio padre finché
è morto. Poi ho preso la mia strada, percorrendo le strade del mondo, un po’
per gioco un po’ per conoscere l’animo dell’uomo a diverse latitudini. Sono
stato in Sud America. Era il periodo della dittatura in Cile. Vedevo le madri
dei desaparecidos che manifestavano il loro dolore a Santiago. Osservavo le
righe che le lacrime avevano scavato sui loro volti, le foto che tenevano in
mano, come i santini che avevo visto sul comodino di mia nonna quando ero
ragazzo. Sentivo i racconti dei bandidos, come li chiamavano i giornali di
regime, lassù sulle montagne della cordillera. Mi piacevano i loro nomi, che cosa c’è di più bello di
“sendero luminoso”, il nome del gruppo di guerrilleri maoisti? Mi erano sempre
piaciute le lingue e, fra le altre, avevo cominciato a studiare il cinese.
Avevo imparato che “ming” significa “uomo illuminato”, e che il carattere
cinese che lo rappresenta è il sincretismo dei due caratteri che rappresentano
il sole e la luna. La luce di giorno e di notte. Era il mio mondo, quello che
parla con il verso degli animali, con i disegni delle nuvole e il suono delle
acque. Lo stesso mondo. La stessa battaglia per difenderlo.
Oggi è il primo maggio, e io mi godo
la mia veneranda età di 75 anni, facendomi una passeggiata in campagna alla
periferia di Ostia, sulla stessa vespa che acquistai 50 anni fa e che mia
madre, che ha ormai quasi cento anni, mi ha conservato nella rimessa della
nostra casa italiana in tutti questi anni nei quali io sono stato in giro per
il mondo a vagabondare. Sono passato sulla striscia di asfalto che taglia i campi di grano a destra e la pineta a
sinistra, la strada provinciale 69. Il sole già picchia duro qua in Italia il
primo maggio, non siamo in Norvegia o in Svezia. L’occhio si perde fra il verde
del grano non ancora maturo e i poggi che si stagliano al basso orizzonte
declinati, talvolta, con filari di alberi di noce.
Ho gli occhiali da sole, la luce
diretta del sole mi ferisce gli occhi, ho la pelle chiara, io Udo Svengborg.
All’improvviso, nel verde del grano intravedo qualcosa. Non riesco bene a
vedere, ma posso pazientare, la SP 69, sale il pendio in quella direzione, mi
sto avvicinando con la mia vespa.
Ora vedo. Vedo una moltitudine di
macchie rosse che fanno capolino fra il verde, sono i papaveri, o rosolacci, ma
papaveri e meglio, mi piace di più questa parola in italiano. Mi ricorda mio
padre Frederik, papà vero. Li osservo meglio, questa folla di papaveri rossi mi
provoca grande gioia nel cuore. Comincio a canticchiare e proseguo la mia corsa
in vespa. “forte il pugno che si alzerà…” Mi dà fastidio il casco, mi colano
gocce di sudore salmastro sulle sopracciglia, qualcuna fino agli angoli della
bocca. Me lo tolgo. Il vento mi viene sulla faccia, è fresco, nonostante la
potenza del sole. Vedo, ancora e ancora, dopo aver valicato la collina, distese
di papaveri fra l’erba e il grano piegato dal vento lieve. Rossi, rosso
porpora, come le labbra frementi di una donna umida di passione.
“Forte il pugno che si alzerà, in
ogni paese in ogni città…”
Proseguo sulla SS 69 fra i voli
di rondini che gioiscono del sole, con garrulo canto e si piegano in volo, fino
a lambire la terra nel fango che è ai fianchi del canale di irrigazione. Mi
avvicino ad una pietra bianca, una di quelle che si usano per delimitare i
campi. È sommersa fra il rosso purpureo dei papaveri e il lilla chiaro dei
fiori di cicoria selvatica. Mi avvicino, per godere di questo spettacolo della
natura. Finalmente, io vedo. I petali dei papaveri, sembrano di carne, sembrano
delle dita, le dita di una mano. Quattro dita sono allineate, il dito
opponente, il pollice è ripiegato con il polpastrello in orizzontale.
Sono pugni chiusi.
Questo io Udo Svengborg vedo oggi
primo maggio. E vedo anche, guardando addietro ai tempi della mia infanzia,
forse settanta anni fa, forse mille anni fa, laggiù sui fiordi della
Scandinavia che serrano il mare grigio e potente, che i papaveri rossi saranno
falciati, tutti assieme, senza alcuna pietà. E vedo sangue, molto sangue, e i
petali straziati dei papaveri sparsi sulla terra. E vedo l’inverno, lungo,
freddo, con tanta nebbia d’ovatta e tanta neve gelata. E poi, ancora, che viene
la stagione della primavera, e che i campi esplodono tutta l’energia che la
terra ha accumulato nella lunga notte. E che vengono nuovi papaveri, rossi,
ancora più rossi, come il sangue dei loro compagni sterminati durante la
precedente stagione. E se c’è una cosa che io vedo abbracciando la mia storia
millenaria e il mio vagare sulle piccole navi, a contatto con cento e più di
cento popoli sparsi nei villaggi bagnati dalle acque dei fiumi o del mare, è
che l’uomo ingordo cerca sempre di opprimere, per sete di potenza e fame di
denaro, altri uomini. E che questo scempio viene celebrato come la regola, lo
scempio è la regola, sì, lo vedo distintamente, e sento che monta, come vento
di tempesta sul mare, sì monta la collera degli Dei. E vedo che gli uomini
ingordi accumuleranno averi e ricchezze per diverso tempo, molto tempo. E vedo
che nel mezzo di questa stagione di empi e di sangue innocente, qualcosa
succede. Sì, vedo qualcuno che viene dal Nord. Sono uomini nelle loro armature,
che portano spade e lance e scudi che luccicano al sole. E marciano a piedi e a
cavallo. Sono uomini guerrieri, quaranta legioni di Arcangeli fatte ciascuna di
quaranta volte quaranta eroi senza macchia e senza paura. Sono uomini semplici
e feroci, avvezzi alla guerra, e determinati a liberare per sempre gli altri
uomini, di ogni colore di pelle, che sono stati ridotti in catene, di ogni
paese e di ogni città. E allora l’uomo ingordo vedrà, oh, sì! Come vedrà e come
sentirà quanto male ha causato suggendo il sangue dei suoi fratelli. E anche
vedrà, e sarà forse l’ultima cosa che vedrà, quanto è affilata e pesante l’ira
della giustizia, come l’ascia e il martello. Sì, ascia e martello, i due
messaggeri della collera degli Dei, caleranno su tutti gli uomini ingordi.
Questo io vedo.”
testo © 2017 Stefano di Stasio
foto © 2017 Stefano di Stasio