di Stefano di Stasio
© testo e foto di Stefano di Stasio 2011 / ® Riproduzione riservata
Di quel piccolo stato, non lontano dal nostro, non si era mai saputo granché. Le frontiere erano state riaperte da pochi mesi e quindi decidemmo di organizzare una gita in autobus per visitarlo. Raccogliemmo le iscrizioni in parrocchia e noleggiammo un pullman con autista. Alla data convenuta ci ritrovammo tutti, armi e bagagli, nel grande piazzale della nostra cittadina. Il bus era nuovo di fabbrica, di colore rosso fiammante e con tutte le comodità per i viaggi di pochi giorni. Nella nostra comitiva c’erano la maestra Tiziana e la sua amica Flavia, Alfredo, un sanguigno pensionato con la moglie, Monica, la mia fidanzata con i genitori e io, naturalmente, Francesco La Grippa. Ricordo di aver provato subito diffidenza per l’autista del bus. Aveva occhi inespressivi e con l’iride velata. Si chiamava Ubaldo.
Passammo la frontiera dello stato e ben presto arrivammo nella capitale. Appena scesi dal pullman ci venne incontro un gruppo di ragazzi. Vedevano che eravamo stranieri e volevano darci il benvenuto. Ci regalarono dei fiori e portarono del tè al gelsomino. Alfredo pensò di pagare e tirò fuori dalla tasca una banconota. I ragazzi lo guardarono meravigliati e si rivolsero alla maestra Tiziana che comprendeva la loro lingua. Il denaro, in quel paese, era stato abolito dieci anni prima. Per ogni persona esisteva un sistema di credito individuale, basato sul lavoro che questa era in grado di svolgere e, inoltre, sul suo cosiddetto "indice di gentilezza". L’aiuto al prossimo veniva premiato moltiplicando il credito personale per due. Di queste diavolerie ne avevano inventate tante da quelle parti. Nei giorni che seguirono furono talmente tante per noi le assolute novità che ne perdemmo presto il conto.
Per esempio, le tasse e le bollette non esistevano, e tutte le fonti di energia erano ottenute dai rifiuti, dal sole e dall’acqua. Rimasi personalmente strabiliato nell’udire dalla viva voce del Sindaco, un missionario chiamato padre Adamo, che per ogni nuova coppia di coniugi veniva approntata una abitazione da parte dell’amministrazione comunale perché "bisognava preparare la terra promessa ai futuri concittadini".
Sulla strada del ritorno a casa mi incupii e anche Monica era turbata. Nel nostro paese dovevamo cercare un lavoro. Ammesso che fossimo riusciti a trovarlo, dovevamo stipulare un mutuo, forse per quarant’anni, di quelli cosiddetti "agevolati" per avere una casa. Di tasse non ne parliamo. Arrivammo immalinconiti nella piazza della nostra cittadina. L’autista del pullman ci invitò tutti a prendere un ultimo caffè al bar insieme prima di salutarci. Lasciammo borse e bagagli sui sedili e scendemmo. Faceva caldo. Ordinammo i caffè. All’improvviso mi voltai e scorsi una persona che, vestita di nero e indossando un casco integrale, sgattaiolava sul nostro autobus. Corsi fuori dal bar e riuscii a infilarmi attraverso la porta a scorrimento prima che scattasse la chiusura automatica. Il pullman partì a tutta velocità. Il tizio in nero alla guida aveva uno sguardo maligno. Mi urlò di non preoccuparmi. Decisi di non cercare di bloccarlo. Le strade erano piene di bambini, era l’ora dell’uscita dalle scuole. Il veicolo, lanciato in una folle corsa, poteva rovinare sui marciapiedi falciando i passanti. In quei pochi minuti il ladro ammise che Ubaldo era suo complice. Avevano architettato tutto nei dettagli. All’improvviso arrestò il bus in una vecchia rimessa di sfasciacarrozze. Ad aspettarlo c’erano altri loschi figuri. Mi dissero che potevo salire su un’auto rubata, che era nella rimessa, e andarmene. Mi sedetti al volante e girai la chiave. L’auto anziché partire in avanti si sollevò dal suolo. Uno dei malviventi aveva azionato la gru. Poi l’auto finì nella pressa. Inesorabilmente l’ingranaggio cominciò a fare il suo lavoro. Udivo lugubri scricchiolii e tonfi sordi mentre la pressa mi costruiva addosso una bara di lamiera su misura. Non sentivo più le gambe. Dai piedi già maciullati era salito su per i miei pantaloni un lago di sangue. Un dolore acuto al capo mi avvisava che il tettuccio della macchina di lì a pochi istanti avrebbe schiacciato la mia scatola cranica facendo schizzare il mio cervello sul volante. Lanciai un grido.
Erano le quattro del mattino. Bagnato fradicio di sudore mi misi a sedere sul letto tastandomi il capo che mi doleva forte.
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