Nuovo record di accessi, ieri sabato 10 Settembre, al racconto+foto+soundtrack
"RèG 8. Il tempio degli esseri viventi":
"RèG 8. Il tempio degli esseri viventi":
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Il calice di Iskur - etnologia della vite e del vino
EDITORIALE
http://paroleefotografie.blogspot.it/p/blog-page_18.htmlRèG 15. ITALIAN GYPSIES
Aeroporto di Gatwick.
Tabellone delle partenze. Gate available
at 17:45. Un rapido conto. L’aereo partiva alle 18:25. Le porte di accesso
all’imbarco aereo erano piu’ di
cento.
C’era un cartello in alto. A
seconda del numero della gate veniva
indicato il tempo necessario al viaggiatore per raggiungerla a piedi. Un tempo
di percorrenza di 10-15 minuti a partire dal salone principale. Bisognava
pensarla bene. Avevo un bagaglio a mano pesante. Decisi allora di aspettare nei
pressi del tabellone posizionato ad un estremo dell’immenso salone di attesa.
Avevo notato un papa’ che giocava con la figlia, una bambina di circa un anno.
La bambina stava imparando a camminare e perciò spesso cadeva sulla moquette
dell’aeroporto. Il padre la seguiva attento e cercava di insegnarle qualche
parola. Seduto su una poltroncina c’era il fratellino della bimba di circa tre
anni più grande. L’uomo se la cavava benissimo in questo menage, forse accudiva da solo i bambini. Poi all’improvviso la scoperta.
Da uno dei negozi del salone spuntò una donna e chiamò. Era la mamma dei
bambini. Cercava disperatamente di risolvere il suo problema del momento. Stava
provando dei cappelli di paglia a falda larga. Voleva l'opinione del marito su
quale scegliere. Chiamava da lontano e a intermittenza cambiava il cappello che
indossava. Il marito non si scomodo’ e le grido’ «Take the smaller ! » continuando a giocare con la figlia.
Mentre aspettavo le
fatidiche 17:45 mi guardavo intorno.
«Ciaaooo! » sentii alle mie spalle.
C’era una donna matura con accento romano che aveva ricevuto una telefonata.
Era in partenza da Londra e una sua amica con la quale si era intrattenuta,
evidentemente rimasta a Londra, la chiamava per sapere come stava.
La tizia parlava a telefono con
foga. Ringraziava la sua amica perché le aveva fatto dei bellissimi regali.
Agenda, penne, rubrica. Ora le veniva da piangere pensando di dover lasciare
Londra. Poi all’improvviso si era confidata a voce alta con l’amica: «C’era qui
seduto un signore che parlava italiano. Il fatto di sentir parlare italiano mi
ha fatto subito stare male…»
A quel punto mi rigirai
sulla sedia e dissi a me stesso «Attento a non farti scappare nemmeno una
parola».
La tizia continuo’ con la
sua seduta di psicoanalisi a voce alta:
«Perché non dobbiamo
scoraggiarci…abbiamo fatto tutto questo per che cosa…e poi molliamo adesso?».
«Perché se lo decidiamo noi nessuno ci può fermare, si vive una
volta sola»
Continuava ad urlare nel
telefono i suoi incoraggiamenti a sé e all’amica. Alla fine, mio malgrado,
compresi che l’amica stava traslocando. Ma c’era dell’altro. La donna che
parlava, seduta dietro di me, aveva un problema molto serio. Aveva perso il
lavoro in Italia.
«Non dobbiamo farci
impressionare da nessuno, e se poi ti licenziano, chi se ne frega»
Continuava a sfogarsi come
un fiume in piena
«E poi…c’è sempre Londra».
Era stata licenziata ed era
venuta a trovare l’amica in Inghilterra. Forse aveva trovato anche un lavoro
temporaneo mentre stava a Londra. Ora tornava in Italia, diceva che andava a
stare dai suoi genitori. Mi sentii profondamente ferito.
Avevo osservato la signora inglese pochi minuti prima.
Sembrava di ceto medio, niente di particolarmente sfarzoso nei modi e negli
abiti. Indossava i cappelli mentre il marito accudiva i suoi bambini. Era più
giovane di questa donna Italiana accanto a me, ma aveva potuto avere una
famiglia, dei figli. Poteva addirittura viaggiare con i suoi bambini.
Invece la mia vicina, questa
donna Italiana, non aveva potuto. Non aveva una famiglia sua, forse non aveva
nemmeno un uomo. Ringraziava mille volte l’amica londinese per i regali ricevuti, primo fra tutti quello di
averle ridato la speranza e, con essa, la dignità. Di averle fatto capire che poteva
farcela. Aveva appena tirato fiato e già si rituffava nella fossa dei leoni.
Tornava in Italia. Nel paese dove l’assurdo diventava diritto, dove la
legge non valeva niente. Dove era stata
licenziata, forse dopo anni di onesto lavoro. Che fare ? Nelle ultime settimane
sui mezzi di informazione avevo ascoltato i commenti di alcune persone jet-set. Benché appartenenti a vischiosi
sistemi di potere, raccomandavano ai figli di recarsi all’estero per poter
vivere onestamente. Era irritante. Mi ricordavo dei miei genitori che avevano
fatto tanti sacrifici per fare studiare tre bambini, dei miei nonni con cinque
figli. Del loro entusiasmo quando calcavamo gli stessi banchi di scuola dei
figli dei ricchi e, quasi sempre, avevamo voti più alti di loro. Adesso alcune
persone, potenti, si ricordavano della vera natura del nostro paese. Del fatto
che stava precipitando. E raccomandavano alla propria discendenza di lasciare
l’Italia. Ero sicuro che i loro figli non conoscevano l’umidità delle stazione
di periferia prima dell’alba e il tanfo delle carrozze ferroviarie e delle
metropolitane. Probabilmente, non avevano mai preso un treno alle cinque del
mattino per andare a sostenere un esame. Dunque i loro figli non avevano mai
sofferto fino a questo momento. Senz’altro non erano mediocri, non si poteva
discutere di questo. Dunque solo quando i padri potenti non potevano più
aiutarli, perché non c’era più nessuno da scavalcare, nessuna possibilità per
nessuno ma solo il deserto, era divenuto necessario rispolverare le bandiere
della lealtà, del merito e del rispetto.
Ripensavo ai miei sacrifici
e a quelli di tanti compagni, figli di gente comune. Dei quali sentivi la puzza
del sudore e della barba lunga perché non c’era tempo di sistemarsi la mattina
prima di prendere l’autobus, e poi il treno e poi la metro. E poi a piedi.
Tanti di loro erano di mente acuta, ma soprattutto erano brave persone. Tanti
di loro non erano riusciti a finire l’università. Qualcuno aveva anche dato di
matto.
E allora mi misi a pensare al mio paese. A come lo
volevano quelli che soffrivano in questo momento, come la donna Italiana seduta
dietro di me. Alle brave persone che, come me e come la mia sconosciuta vicina
di aeroporto, non l’avevano mai abbandonato definitivamente perché là avevano i
propri genitori e le proprie radici. Era venuto il momento di urlare «Vergogna!
» a quelli che stavano affondando la nave e ora raccomandavano «Si salvi chi
può! ».
© 2016 Stefano di Stasio. Ogni riproduzione anche parziale
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© 2016 Foto di Stefano di Stasio.
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