a cura di Stefano di Stasio
Dalla quarta di copertina:
Tre vite legate fra loro da un corso circolare del tempo. Un libro, scolpito pazientemente con una prosa quasi zen, che racconta della vita e della morte con l'ironia e la curiosità che ci permettono, giorno dopo giorno, di spingere lo sguardo dietro l'angolo.
Buongiorno Paolo. Comincerei dal titolo: Il Punto
Estremo. È un libro interessante perché come si legge dalla quarta di copertina
si tratta di un esperimento linguistico oltre che letterario. Lo si potrebbe
vedere come una partitura a tre voci,
oppure un monologo a tre voci, oppure una sola voce con tre toni o timbri
diversi, Zero, Claudio e Adele. In realtà la percezione è quella di un unico
umano dolore. Perché la scelta del titolo?
Buongiorno a te, Stefano. Il punto estremo rappresenta concettualmente il punto esperienziale più
lontano che nella vita possiamo raggiungere, che potrebbe anche coincidere con
l’ultimo. Per chi ci crede in questo caso coinciderebbe anche con il primo di
un altro tipo di esperienza metafisica e spirituale.
Il punto estremo è anche, simbolicamente, il punto più alto da scalare
in una montagna, il punto più lontano dalle cose e dalle persone. Ma è anche il
punto più profondo in una disperazione, la soglia ultima del dolore, il confine
fra aiuto ed oltraggio, fra pudore e diritto di non esistere.
Attraverso l’esperienza di Adele e Claudio ho cercato di presentare
anche questo tipo di punto estremo.
Zero, invece, trova il punto estremo nella sua breve, immatura ed acerba
conoscenza del mondo che ha appena sfiorato nei suoi brevi istanti.
Colpisce il lettore la lucidità con cui è stata
concepita l’architettura della meta-narrazione. I tre personaggi Zero, Claudio
e Adele appaiono e scompaiono ognuno con un tempo proprio di scansione di vita:
istanti, ore, giorni. Anche la punteggiatura e le pause sono estremamente
“volute e precisate”, come per esempio i punti scanditi come rintocchi di
orologio nelle cinque righe finali. Come è nata l’idea di questa “grammatica”?
La storia del libro è particolare. Inizialmente
volevo esplorare l’evento-morte, la perdita. Mi affascina perchè non riesco a
comprenderne bene la portata assoluta e al tempo stesso sono curioso di
scoprirlo. Inoltre è uno dei grandi tabù della società moderna, che si spinge
tecnologicamente in prospettive velocissime ed inimmaginabili. La morte è la
sconfitta della scienza, ma a volte è solo il trionfo della vita.
Avevo pensato di avvicinare il tema da tre angolazioni distinte ma
convergenti: dall’inizio della vita, a metà e alla fine.
Ecco allora la scelta di tre protagonisti: un feto, una donna e un
vecchio.
Ho scelto il feto soprattutto perchè rappresenta al meglio il momento
assoluto dell’inizio. È un po’ il punto estremo dell’inizio.
Durante la scrittura mi sono accorto che, trattandosi di esperienze
soggettive, e nel caso di Zero di un’esperienza totalmente immaginaria, avrei
potuto mescolare aspetti quotidiani con elementi temporali diversi, attraverso
legami di vario tipo e intervallando il ritmo della narrazione, creando un
effetto-palcoscenico che chi lo legge visualizza facilmente.
C’è una specie di ritmica che dirige i tempi in quelle pagine. Come in
ogni melodia anche le pause possono essere parte della ritmica. Il gioco dei
puntini è, anche graficamente, l’avvicinarsi della conclusione, uno scandire il
conto alla rovescia che può essere il battito del cuore, il respiro, la fine
del tempo. È venuto un po’ per caso ma risiede nella cura con cui ho cercato di
lavorare specialmente ai dettagli di questo piccolo libro.
Ho cercato di usare un numero molto basso di pagine, asciugando quasi
all’estremo (ecco un altro punto estremo) la narrazione ed avvicinandomi a
volte alla poesia, anche per cercare un effetto contrario alla saturazione che
fanno i libri molto lunghi.
Chiedo al lettore di evocare le proprie emozioni per arricchire ciò che
legge.
È un senso di perdita anche avere conosciuto solo pochi tratti di Zero,
Claudio e Adele.
La foto di copertina e la dedica. Qual è la
relazione fra l’altipiano di El Alto con sullo sfondo la Cordillera Real e “a
chi resta, a chi resiste, a chi se ne va” ?
La foto è stata scattata in Bolivia a gennaio 2008,
in uno dei luoghi più straordinari che abbia mai visto, a suo modo un luogo
estremo.
La dedica rappresenta un pensiero a tutti coloro che vivono,
suddividendoci in coloro che scelgono di restare, cioè di vivere, in chi cerca
di resistere, o chi se ne va, anche per propria decisione.
In questo libro parlo di morte, ma anche di scelte.
La morte può essere una scelta, che alcune persone possono vivere come
liberatoria.
In altri casi invece ci si prova, a vivere, affrontando le giornate una
per volta. Ecco perché a chi resiste.
Ho cercato di esplorare il dramma interiore di Adele e di Claudio,
drammi che credo ogni uomo prima o poi potrebbe sperimentare durante la vita.
L’incipit del lavoro si può pensare coincidere con
l’istante 1 di Zero. Personalmente, lo ritengo più una poesia su “l’istante
della creazione di un’anima” che una narrazione in prosa. Però citerei la parte
finale: “…Non ho sensi per raccogliere qualcosa: sono un filo appena visibile
appeso nel buio./ E mi sono appeso nel buio sbagliato. / Che culo”. A parte la
forte empatia che nasce spontanea per tanta franchezza, la domanda è: come si
combinano casualità, esistenza e volontà?
Non lo so, forse in maniera molto semplice. L’idea
di Zero è nata dalla ricerca dell’inizio della vita, altrettanto affascinante e
misteriosa come la fine.
Zero, effettivamente, ha dei tratti che non sono propri di un bambino:
ha una maturità di pensiero e di emozioni che lo collocano in una fascia di età
evidentemente più elevata, ma che forse consente al lettore maggiore empatia.
L’ho “condannato”, collocandolo in un buio sbagliato, cioè in una
gravidanza extrauterina che va tolta chirurgicamente e in fretta per evitare la
morte della madre.
Al tempo stesso gli ho dato una capacità di pensiero (che lui
paradossalmente sa di non poter avere) come regalo estremo per lasciare una
traccia flebile nel suo piccolo percorso.
Claudio dice “Quando vali poco sei un peso, non ti
importa se la gente ti ride dietro”, ora 1. E ancora, ora 4: “Dovremmo
stabilire, ognuno per sé, quale sia il limite fra la vita e l’oltraggio…”. E la
condivisione dov’è finita? Dove ce la siamo persa? E la “compassione” per dirla
come Ghandi? E la “misericordia” di cristiani e mussulmani?
Ho cercato di esplorare il concetto di compassione
visto dal punto di vista del destinatario.
Nessuno di noi si immaginerebbe che l’età avanzata, desiderata perché
sinonimo di lunga vita, possa essere invece un epilogo triste, immobilizzati in
un letto o su una sedia a rotelle. Mi sono chiesto se chi vive questa
condizione, ed ha ancora una relativa lucidità mentale possa rivedere i propri
schemi valoriali, le proprie priorità.
Io non so se vorrei restare aggrappato a tutti i costi ad una vita che
mi releghi ad essere totalmente passivo. Ma lo penso qui ed ora. Non so cosa
penserei se ci fossi veramente in una situazione del genere.
È un pensiero ed un confine che variano nel tempo e da persona a
persona, da cultura a cultura.
Allo stesso tempo credo che nessuno possa però imporre la vita ad ogni
costo, atteggiamento che alla fine forse ha prodotto il tabù della morte che
stiamo vivendo oggi.
È perdita solo la morte o anche una vita che una persona non considera
tale?
Io non ho risposte, ho cercato solo di esplorare le domande.
Zero, istante 4. Il pianto della madre, di nuovo
una delicata e tenera poesia. Secondo te, solo prima di nascere l’uomo è poeta
sul serio?
Se intendiamo per poesia la trasparente ed armonica
manifestazione delle proprie emozioni no.
Ma, forse, è solo prima di nascere che l’uomo è
incontaminato, quando ha una relazione esclusiva e totale con il luogo (la
persona) dove ha avuto inizio. Prima di nascere l’uomo non è contaminato dal
mondo. In questo ambito si cela uno dei misteri che l’uomo, inteso come
maschio, non potrà capire mai. Io pertanto ho solo provato a immaginare un
legame emotivo ed empatico fra madre e figlio che conosciamo in termini
biologici, ma che probabilmente esiste anche su altri piani.
Adele si interroga: “Cos’è il tempo per una
montagna ?”. Per te Paolo Pajer che cos’è il tempo? E che rapporto hai con le
montagne?
Il tempo è una variabile strana: è una certezza, è
assoluto, è a prescindere. È l’uomo, come sempre, che lo interpreta, pertanto
abbiamo un tempo veloce, un tempo tiranno, un tempo buono e uno cattivo. Un
tempo lento. Personalmente credo che il tempo sia un alleato molto forte per i
momenti negativi: non può che lavorare a favore.
Il mio rapporto con la montagna è molto profondo. Ho alcune montagne che
rappresentano per me il ritorno alle origini, e l’ambiente della montagna, i
suoi silenzi che non sono mai silenzi assoluti ma rumori di sottofondo, è la
rassicurazione di fronte alle pochezze umane.
La montagna per me è la dimensione della solitudine più proficua, più
condivisa.
Adele compie una scelta molto forte, estrema, e sceglie la montagna come
ambito dove compierla. La montagna è simbolicamente la mano estrema ed
accogliente che la proteggerà, il grembo dove potrà tornare.
L’introspezione: con le parole di Claudio, ci si
chiede come facciano talune persone a vivere una vita intera basandosi su ciò
che non vogliono vedere, una vita parallela. Ti chiederei: quanto del coraggio
di voler vedere può aiutarci a vivere senza dolore?
La scelta, o la condizione, di vivere vite
parallele dove non consideriamo le cose che ci fanno male è proprio una strategia
per soffrire meno. A volte il compromesso ha tenuto assieme famiglie per anni,
ha permesso di sopravvivere alla solitudine.
Il coraggio di vedere è il coraggio di sapere e di affrontare la
sofferenza. Non credo che il coraggio di voler vedere possa far diminuire
l’effetto del vedere, forse lo depotenzia.
A volte ci sorprende come le persone siano in grado di vivere due vite
parallele, una esteriore e una interiore, e come questo parallelismo riesca a
stare in piedi per tanto tempo.
Ma forse è solo una nostra interpretazione, o un limite.
Una domanda a bruciapelo: che cosa dà gioia a Paolo
Pajer?
Mi dà gioia sentirmi utile, riconoscermi in un
luogo o in persone.
Regalarmi un giorno in montagna, una passeggiata con mia moglie, ma
anche lo sguardo di mia figlia quando la sveglio la mattina, la buona
impressione che lascia mio figlio sulle persone.
Da un certo punto di vista scrivere mi dà molta gioia, ed è un’attività
simile al camminare in montagna.
L’ultima domanda è convenzionale. Me ne scuso ma
noblesse oblige: qual è il tuo prossimo “esperimento narrativo”? Vista la
riuscita eccezionale del primo, si dovrebbe proseguire. O no?
Nella domanda c’è una considerazione estremamente
lusinghiera, della quale ti ringrazio di cuore.
In questo periodo sto scrivendo dei racconti. Trovo che il
racconto sia una forma narrativa molto interessante e affine a Il punto
estremo, perché permette di tratteggiare in poche righe persone e situazioni,
lasciando al lettore il suo spazio vitale.
Non so se riuscirò mai più a fare una cosa complessivamente
originale come Il punto estremo, di certo è stato un momento necessario,
fortunatamente fatto e che ora, con mia grande soddisfazione, posso annoverare
fra le cose buone che sono riuscito a fare.
Grazie e a presto, Stefano.
SCHEDA DEL LIBRO
Titolo:
IL PUNTO ESTREMO
Autore:
Paolo Pajer
Editore: Erga
Data di Pubblicazione: Ottobre 2012
ISBN-13: 9788881637355
Pagine: 48 Formato - Prezzo: Brossura, 6,00 Euro
© Intervista realizzata da Stefano di Stasio il 16 e 22 gennaio 2014. Pubblicata su Parole e Fotografie il 24 Gennaio 2014
Nessun commento:
Posta un commento