RèG 11. Kanelbulle, il messaggero di Odino
testo e foto di © 2016 Stefano di Stasio; LUND, Dicembre
2012
In bicicletta nella tormenta. Come riuscivano a non cadere? A terra la neve
stava ghiacciando. Osservavo meravigliato quegli studenti che andavano in bici
mentre fioccava. Mi coprii il capo con il cappuccio della giacca per ripararmi
dal freddo. Era l’inizio di dicembre ma già in Svezia la temperatura era scesa
a meno venti gradi Celsius. Avevo accolto l’invito della mia amica Yvonne che
stava organizzando una conferenza. Ero andato per darle una mano. Mi aveva
colpito il salone degli arrivi dell’aeroporto di Kopenhagen-Karlstrup. In alto
c’era un enorme orologio. A destra la biglietteria a sinistra l’ufficio di
cambio. Una scala e già eri sul binario per prendere il treno per la Svezia. Un
tunnel sotto il braccio di mare che separava la Sjælland, l’isola di
Kopenhagen, dalla penisola scandinava. Un tunnel e un ponte avevano
definitivamente relegato nel settore dei miei ricordi di gioventù i traghetti
che c’erano trenta anni fa. Yvonne era venuta a prendermi alla prima fermata
del treno in terra Svedese. Appena sceso dal treno mi ero reso conto che
camminare sarebbe stata una sfida. A ogni passo, a ogni minimo movimento,
rischiavo di scivolare su uno strato di ghiaccio. Era notte e i fiocchi di neve
venivano giù fitti e grossi. Diffondevano nell’aria secca la luce gialla dei
lampioni rischiarando il piazzale di sosta della stazione. Il tratto in auto mi
sembrò breve. Ogni parola scambiata con la mia amica pareva ovattata. Arrivammo
a Lund. Ci accolse il fumo della centrale termica. Dopo un brindisi di
benvenuto mi congedai da lei.
In albergo non si vedeva anima viva. Era già tardi. Presi la chiave in
portineria e raggiunsi la mia camera. La notte passò lentamente. Dalla spaziosa
vetrata posizionata di fronte al mio letto attesi la luce del giorno. Tardò a
arrivare. Era l’inverno del Nord. Una luce d’emergenza e un bip-bip distolsero
la mia attenzione dalla linea dell’orizzonte. Era lo spalaneve che aveva
ripreso a lavorare. Mi vestii in fretta
e raggiunsi la sala della colazione. Sulla porta senza maniglia c’era un
cartello che diceva “Per aprire mostrare la chiave dell’hotel”. Pensai a
qualche stregoneria tecnologica dell’ ultim’ora. Estrassi dalla tasca della
giacca la chiave con la sua targa di bronzo pesante e cominciai a sbandierarla
davanti all’ingresso. Però era strano, non vedevo nessuna telecamera. Continuai
così per qualche minuto. Niente, la porta non si apriva. Nel tunnel del centro
commerciale attiguo all’hotel vidi da lontano avanzare due uomini. Erano
vestiti in tuta di lavoro. Intirizziti dal freddo venivano a prendere un caffè.
Mi feci da parte. Uno di loro, senza curarsi minimamente del cartello sulla
porta, si accostò al lato sinistro vicino ai cardini e premette qualcosa. Mi
sentii un incapace. Come ebbi modo di verificare nei giorni seguenti, tutte le
porte di quella regione della Svezia erano equipaggiate di una grossa tavoletta
metallica che funzionava da apri porta automatico. Era una soluzione
intelligente. Così anche se avevi le mani occupate, la porta si apriva da sola
e potevi entrare senza lasciare il tuo bagaglio.
Dopo la colazione decisi di fare quattro passi. Era domenica. Raggiunsi in
autobus il centro storico e da lì la cattedrale. Era dell’anno Mille.
All’interno c’era un grande orologio tutto fatto di legno. Fui colpito dal
fatto che alcuni ragazzi distribuissero tazze di tè e caffè all’interno della
chiesa. Mentre percorrevo la navata destra incrociai degli individui vestiti in
abiti talari. Erano giovanissimi. Poi notai una cosa strana. C’era una donna
vestita coi paramenti sacri. Che strano! Pensai che fosse una religiosa di
qualche ordine particolare. Ancora una volta, mi sbagliavo. Erano le undici del
mattino e cominciò la funzione religiosa. La donna salì sull’altare e iniziò a
dir messa. In Svezia c’erano anche le sacerdotesse. Mi sembrò giusto. Pari
opportunità. La celebrante lesse la liturgia e si soffermò sulla lettura di un
testo sacro. Poi si interruppe. Che cosa aspettava? All’improvviso da un
pulpito attaccato a metà della navata di sinistra si udì una giovane voce
maschile. Era uno dei sacerdoti che avevo notato poco prima che spiegava
l’omelia. Tutti i fedeli si girarono sulla loro sinistra per osservarlo meglio.
Non capivo una parola di Svedese, ma dal tono si intuiva che il giovane prelato
stava severamente arringando i convenuti sul messaggio evangelico. Si fermava,
rimproverava, spiegava. Quando l’omelia fu finita, decisi di uscire anche se la
cerimonia stava continuando. Nel parco di fianco alla cattedrale, mi divertii a
camminare sullo strato soffice di neve. Scattai qualche foto alle statue che
rappresentavano eroi nazionali. Poi su un mucchio di carbone e torba notai un
gruppo di corvi. Sembravano interessarsi a me. Mi osservavano e poi
comunicavano fra di loro. Chissà che cosa avevano da dirsi.
C’era un museo lì vicino. Entrai. La signorina all’ingresso mi illustrò la
tariffa. Faceva la pubblicità di due libri sulle attività archeologiche
condotte in un sito non lontano, situato in quella regione della Svezia
meridionale, che si chiamava Uppåkra. I testi erano redatti dai professori che
avevano curato il recupero dei reperti e stampati dall’editore dell’università.
Erano in Inglese. Li acquistai cercando di tirare sul prezzo, ma fu inutile.
Uno era dedicato alle monete che erano state rinvenute nel corso di vari scavi.
Si intitolava Treasures in Skåneland.
E così venni a sapere che quella parte della Svezia era stata a lungo sotto la
dominazione dei re di Danimarca e che ogni re cercava di battere la sua moneta.
Ma non avevano argento e oro a sufficienza e, per questo motivo, alla fine
coniarono monete di rame che, tuttavia, non durarono a lungo. Era anche
simpatico il fatto che, come in una lite di famiglia, ogni volta che subentrava
un nuovo regnante dichiarava fuori corso le monete precedenti e sequestrava
tutti i fabbri in grado di coniare monete per essere sicuro che fossero battute
solo le sue. L’altro libro era più interessante, Barbaricum. Parlava di reperti archeologici dell’età del ferro.
Alcuni di quei reperti erano esposti nella sala a piano terra del museo. Entrai
nella sala, mi accolse una ambientazione multimediale dei fatti e dei luoghi. E
così mentre il commento sonoro, fatto di vento e eco di grida, diffondeva
dall’impianto stereo, un fuoco finto, dietro una parete di vetro, illuminava la
stanza con i suoi bagliori palpitanti. Mi misi a osservare le punte di lancia e
di ascia e i monili disposti in bell’ordine nelle teche. Nel sito di Uppåkra,
nel corso di scavi recenti, erano stati rinvenuti i resti di un rito di
festeggiamento sul nemico vinto. Era consuetudine dei popoli del Nord Europa
nel quinto secolo, dopo avere ottenuto la vittoria in guerra, di riportare a
casa tutto quello che erano riusciti a strappare al nemico vinto. Armi, merce
preziosa, abiti, cavalli e prigionieri. Poi in una specie di rito orgiastico
tutto questo veniva distrutto dalla popolazione dei villaggi. Così i
prigionieri venivano impiccati, i cavalli affogati nei corsi d’acqua, le lance
e le asce ridotte in pezzi. Perfino l’oro e l’argento, prima appartenuti agli
avversari, venivano gettati nel fiume. Questo rituale venne in seguito definito
“trionfo” dagli antichi Romani. Le cronache di Paulus Orosius, uno storico
iberico dell’Anno Domini 417, fornivano i particolari crudi di questi riti. Nel
mucchi di reperti del trionfo rinvenuti a Uppåkra c’erano delle punte di lancia
ritorte e ossa umane. Nella stanza di seguito c’erano alcune bacheche con
monili e collane. Molte erano di ambra. Un tempo gli uomini e le donne erano di
statura più bassa rispetto a oggi. Così anche i gioielli erano minuti. La
lavorazione era però precisa. C’erano motivi a onda, il serpente e l’orso, le
rune. Di fronte ai gioielli c’era il cranio di una donna in una teca.
Un’esecuzione. Nel cranio c’erano due buchi uno al centro e uno di lato. Gli
esperti avevano ricostruito che questa poveretta era stata giustiziata, dopo
essere stata immobilizzata in ginocchio, con due colpi di mazza. Uscii dalla
sala, avevo bisogno di bere.
Nella caffetteria del museo lì vicino comprai un dolce alla cannella e un
caffè. Uscii nel parco. Aveva ripreso a nevicare. Cominciai a mangiare con
avidità ma il dolce era veramente grosso e dopo poco non ne ebbi più molta
voglia. Mi guardai attorno. Da un muretto un corvo mi osservava attentamente.
Lo guardai, mi guardò. Capii che cosa mi stava chiedendo. Staccai un pezzo del
dolce di cannella e lo lanciai sulla neve. Il corvo non si scompose. Studiò
ancora un po’ le mie intenzioni. Poi, per niente intimorito, volò basso e
raccattò il suo pasto. Cominciò a beccare il pezzo di dolce. Continuai a
mangiare per inerzia la mia ciambella. Dopo poco il corvo mi guardò di nuovo.
Lo riguardai. Scambiammo veloci la sensazione di soddisfazione che
condividevamo in quel momento. Lui, come me, era già sazio. Tuttavia a me non
andava di sprecare il cibo avanzato. Anche lui era dello stesso avviso. Spezzai
in due pezzi ciò che rimaneva nelle mie mani della ciambella. Lanciai verso di
lui il primo pezzo. Saltellò sulla neve. Si avvicinò e prese il boccone con il
lungo becco. Poi si girò. Si spostò, saltellando a piccoli balzi, verso il
muretto. Arrivato nei pressi della base di questo, là dove i mattoni spuntavano
dal suolo, affondò il suo capo nella neve. Quando riemerse nel becco non c’era
più nulla. Che aveva fatto? Volevo essere sicuro di aver capito bene. Lanciai
sulla neve l’ultimo pezzo di dolce. Ancora il corvo si avvicinò. Ancora
raccattò il suo boccone. Con un saltello fece un dietro front. Si diresse
questa volta verso un segnale stradale che era distante una decina di metri.
Raggiunse la base del tubo di sostegno. Di nuovo affondò il capo nella neve
fino a scomparire. Di nuovo riemerse senza boccone nel becco. Senza fretta si
allontanò anche dal secondo nascondiglio. Tutt’intorno caroselli di fiocchi di
neve impazziti nel vento celebravano, come in un rito ancestrale, il trionfo
del gelido inverno che sopraggiungeva.
© 2011 Stefano
di Stasio. Il plagio sarà perseguito a norma della legge sul diritto d'autore
La vie alternative (in francese) suggerita dal messaggero di Odino, il corvo della Scandinavia, la intuite anche nelle emozioni e nell'entusiasmo a cui fanno riferimento alcuni dei protagonisti della stagione degli hippies, the flower people, e, in particolare, nella narrazione di alcuni di loro, l'uno che disertò l'arruolamento militare, preferendo die Blumen al posto di der Krug, l'altra che descrive la sensazione di libertè total provata dormendo sulla spiaggia e guardando le stelle, e, anche, andando alla toilette dans la campagne.
Con le interviste, le immagini del
documentario e la colonna sonora.
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