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sabato 16 luglio 2011

Recensione e intervista a Rodolfo Canzano, autore di “SENZAPOSA” antologia fotografica


Chi fa fotografie da almeno vent’anni, sa bene che uno scatto è una storia. Una storia di esplorazione, di empatia, di decisione. In pochi attimi, il fotografo è chiamato a una grande responsabilità. Osserva la realtà per vedere la sua realtà. Decide che cosa rimarrà di quanto osserva e che cosa dovrà scivolare via nei tagli di inquadratura e nei tempi di scatto. In questa esaltazione del continuo necrologio impresso sulla stampa, la macchina fotografica è un prolungamento dell’occhio. Come l’occhio inquadra la scena, si sofferma. Diversamente dall’occhio restringe o amplia il campo visivo. Le persone, gli ambienti, le vite non capitano lì per caso. C’è bisogno di studiare, di entusiasmarsi, di condividere la fotografia con qualche altro strambo individuo che cammina, mangia, dorme con la fotocamera come te. Questa condivisione è stata da me vissuta personalmente quando ho incontrato Rodolfo per la prima volta, circa quindici anni fa. Ricordo la sua, e la mia, aria spaesata in mezzo a una riunione di fotoamatori che disquisivano di politica della fotografia. Ci siamo scambiati uno sguardo per dire "Ma che cosa vogliono questi qua?" e poi dopo qualche minuto giù in strada che parlavamo dei vecchi reportage e dei nuovi che stavamo progettando. Ecco, la qualità più importante per un reporter è l’umiltà. Umiltà di osservare, rispettare l’altro da sé. A volte per entrare in confidenza con le persone sono necessarie settimane e settimane. Oltre al diniego ostile, trovi, ed è peggio, la maschera. La persona inconsapevolmente si nasconde dietro un’espressione finta, né più ne meno che fa il polipo e la seppia sputando il proprio inchiostro in faccia al predatore. Devi lavorare, ascoltare, rispettare, condividere, raccontare. Quando l’altro sente che sei uno della sua famiglia allora si apre, getta via quel sorrisino di plastica o quell’espressione fredda e ti apre la porta di sé. Ancora devi procedere con cautela, ancora con discrezione, badando a "camminare sulla neve senza lasciare tracce" come ci insegna Ernst Haas. E anche lesto a cogliere il momento "à la sauvette" al modo del maestro Henry Cartier Bresson.
E dunque Rodolfo ci racconta delle storie. La maggior parte di esse, vicine ai posti in cui è nato, in cui siamo nati, una manciata di anni fa. Paesi sperduti su una carta geografica quasi senza nome, quella provincia di "Terra di Lavoro" smembrata dal duce per rappresaglia contro gli anarchici di Santa Maria Capua Vetere. Quelle colline dei monti Tifatini, devastate dall’ingordigia dei cavaioli, morsicate da denti enormi e invisibile come le viscere di un unico organismo. All’ombra di quelle colline Rodolfo ci dice di bambini che improvvisano giochi con una mazza e una palla, di corriere che sembrano uscite dai romanzi di John Steinbeck, di processioni, di vecchi negozi, di matrimoni, di librerie ormai scomparse. In ogni istantanea, puoi vedere un racconto con l’occhio della mente. Così nella copertina, il bus diventa l’icona dell’esistenza. I passeggeri i tuoi compagni di viaggio. Fuori dai finestrini corre via la realtà, spesso senza che tu possa fermarla. Il guidatore di quell’autobus lo distingui a malapena. Ma poi l’autobus si ferma. Tu scendi e osservi una panchina. Trovi appoggiati cinque moschetti e quattro cappelli. Sono lì immobili davanti a te. Non sono animati. Eppure ti parlano, ti raccontano di una manifestazione dell’arma dei Carabinieri. Ti volti. Sulla strada è raggomitolato un madonnaro. Sembra un bambino nell’utero della madre. Le mani si vedono appena. Sta tutto avvolto su sé stesso e disegna per terra. Ti ricordi che lo fece anche Gesù Cristo quando i suoi discepoli gli chiesero cosa fare della Maddalena, la prostituta. Ecco, questo è quello che fanno le persone come Rodolfo e come me. Noi disegniamo per terra con la macchina fotografica per riuscire a non scagliare la prima pietra. Contro chi? È facile rispondere, basta osservare le foto di "Senza posa".

© Stefano di Stasio 2011

  1. Come ti sei avvicinato alla fotografia? Raccontaci un episodio che è particolarmente impresso nei tuoi ricordi. /
  2. R. Quando ho sviluppato un rullino per la prima volta sono rimasto incantato dal mistero della vita catturata in quel sottile strato di sali d’argento: metti un foglio di carta bianca in un liquido e vedi l’immagine affiorare sulla superficie, una magia. Non so quando sono diventato davvero consapevole di come usare il linguaggio della fotografia ma ci sono voluti molti anni dopo quel rullino.
  3. Che impressione ti ha fatto vedere le tue foto pubblicate per la prima volta su quotidiani e riviste? /
  4. R. La prima volta che ho pubblicato mi ha fatto molta rabbia perché le mie foto non venivano mai firmate.
  5. Quali sono stati i grandi fotografi ai quali senti di dover essere riconoscente per la tua formazione visiva? /
  6. R. La mia formazione visiva proviene più dal cinema, registi come Andrej Tarkovskij, Wim Wenders, Michelangelo Antonioni, Pierpaolo Pasolini. Come fotografi apprezzo molto Robert Frank, con il suo famoso libro "Gli Americani", William Klein, Diane Arbus, Mario Giacomelli, Antonio Biasiucci.
  7. Come è nata l’idea di "Senzaposa"? /
  8. R. Era nata già da diversi anni, ma devo dire, di fronte a un mercato editoriale che non riesce a sostenere economicamente tutti i progetti validi, sono riuscito con l’aiuto di alcuni collezionisti a pubblicare "Senzaposa". Penso che il futuro della comunicazione visiva di massa sia il web. Ma la fotografia non è solo comunicazione di massa. Credo, anzi, che nei prossimi anni sarà valutata come forma d’arte, crescerà il pubblico di cultori che collezionano stampe fotografiche.
  9. Dalle tue foto è evidente il legame con il tuo territorio. Quale pensi debba essere l’approccio corretto del fotografo con la realtà sociale? /
  10. R. Il mio lavoro non è un lavoro legato solo al territorio Casertano. Ci sono foto fatte a Napoli, Roma, a Orgosolo e in altri luoghi della Sardegna. La fotografia sociale è una fotografia d’inchiesta e di comunicazione riguardante problemi sociali. Io cerco non solo di documentare ma anche di dare un taglio più artistico, estremizzando l’immagine con il grandangolo, con tagli, ombre, sfocature, eccetera. Ho trascorso molti anni della mia vita a cercare di raggiungere, assorbire, capire e rivelare la realtà. A cercare di avvicinarmi. Ho fotografato di tutto: dai morti ammazzati di camorra alle manifestazioni politiche, per i giornali. So quanto il mio sguardo possa essere invadente. Ma se ho fatto bene il mio lavoro forse qualche volta ho riacceso la vita in chi ha guardato le mie foto. Il fotografo non può guardare alla vita con occhio indifferente. È importante vedere quel che per altri è nascosto, che sia speranza o malinconia.
  11. Una domanda tecnica. Quali sono i tuoi strumenti per la ripresa tradizionale e come sono evoluti con la diffusione della foto digitale? /
  12. R. Uso come macchina ancora analogica una Leica M7, una Nikon FM2 e con il digitale una Canon EOS 20D. Per il mio lavoro di ricerca uso ancora la pellicola. Mi piacciono molto anche le foto con i difetti che le rendono più umane.  
  13. Il mercato dell’editoria Italiano è sempre stato un po’ impermeabile rispetto alla pubblicazione di antologie fotografiche, per esempio rispetto agli Stati Uniti e alla stessa Germania e Francia. Quale pensi possa essere l’utilità sociale della diffusione di raccolte fotografiche specialmente riguardo alla formazione dei bambini e adolescenti? /
  14. R. Riguardo al mercato editoriale ho già anticipato la risposta. Ritengo che possa essere utile la pratica di un nuovo linguaggio, tenendo conto che internet è un mezzo di comunicazione principalmente visivo.
  15. In sintesi, che messaggio ritieni sia stato affidato all’antologia "Senzaposa"? / R. Dietro ogni foto c’è una narrazione di esperienze vissute in prima persona. Il mio messaggio è che una vera storia ha un inizio e una fine. Le fotografie invece sono solo in grado di suggerire. Mi piacerebbe che le mie foto si leggessero come un romanzo, invece vanno lette come una poesia.
  16. stefano.distasio1600@gmail.com
  
Recensione e intervista realizzate da Stefano di Stasio il 9 e 16 Luglio 2011.

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