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sabato 31 marzo 2012

EHEC

di Stefano di Stasio


"Mi chiamo Jürgen Swartzkopf, il mio numero di matricola è 323567. Appartengo ad una unità speciale del Robert Koch Institute di Hamburg incaricata di svolgere sorveglianza su possibili attacchi batteriologici da parte di terroristi. L’unità di sicurezza biologica fu istituita dopo l’11 Settembre 2001 per prevenire il rischio di attacchi di antrace annunciati dai combattenti della jihad islamica.

Quando questa storia è cominciata pensammo ad una trovata giornalistica per boicottare i prodotti vegetali importati da fuori la Germania. Il nostro paese ha bisogno di comprare vegetali prodotti all’estero solo durante l’inverno. Quando subentra la primavera la nostra produzione è in grado, da sola, di far fronte alla richiesta interna. Per questo pensammo che la notizia del batterio killer fosse una trovata per stroncare l’importazione dei cetrioli dalla Spagna. Era successo un caso analogo per le fragole che provenivano dall’Italia qualche anno fa. Qualunque persona istruita sa che i batteri Escherichia coli sono presenti normalmente nell’intestino degli animali, incluso l’uomo.
La variante O104:H4 fu individuata nel 2004 nell’intestino di una donna Thailandese. A quell’epoca non c’erano prove che fosse infettivo. Noi sapevamo, già dal 1990, che il ceppo O104 possiede due geni che hanno delle caratteristiche spaventose. Sono così mortali che molte persone infettate sperimentano l’insufficienza critica di un organo e semplicemente muoiono perché, per esempio un rene, esplode in una emorragia dei tessuti e smette di funzionare.

Selezionammo campioni prelevati dai rifiuti delle persone infettate qualche mese fa. Il nostro direttore Johan Katz fece chiamare tutto il nostro gruppo nei laboratori di Amburgo. Fu categorico. Herr Katz sa essere estremamente convincente. Ci disse che avremmo avuto al massimo quattro settimane per fare i nostri esperimenti. Poi ci avrebbe costretti, uno per uno, a ingurgitare campioni di tessuto infettato dal batterio. Mentre ci annunciava questa sua irrevocabile decisione, cominciò a tossire senza potersi fermare. Herr Katz è pericoloso quando non riesce più a parlare fluentemente. Diventa tutto rosso, si agita contorcendosi e cerca di inseguire con la bocca aperta quelle parole invisibili che gli scappano sotto il naso mentre la sua gola è sconvolta da colpi di tosse secca a ripetizione. Concluse con difficoltà il suo discorso. Suo padre era stato un generale della Wehrmacht durante la seconda guerra mondiale. La tosse si interruppe e poté continuare: "Il mio onore, l’onore dell’Istituto che ho il privilegio di dirigere, viene prima di tutto. Se dovesse continuare a colpire, non ci sarà posto sufficiente per il batterio assassino e i vostri ridicoli posti di lavoro. Un ricercatore che non riesce a fronteggiare la calamità, sa bene cosa gli rimane da fare! Credo di non dover aggiungere altro."

Mi misi al lavoro. Fuggire non sarebbe servito a niente. Tutti i ricercatori dell’istituto non possedevano averi o denari. Pagavano tutto con una carta di credito dell’amministrazione e dormivano in case il cui affitto era pagato dall’istituto. Anche il passaporto era depositato nella cassaforte della contabilità.
Dopo una settimana io e i miei colleghi ci rendemmo conto di avere a che fare con il peggiore incubo della ricerca in microbiologia. Il batterio O104: H4 era un clone del Escherichia Coli enteroaggregante, perciò possedeva delle sonde che lo rendevano capace di ancorarsi alle pareti intestinali e ne rendevano impossibile l’espulsione per mezzo delle feci. Nei pazienti contaminati la tossina produceva la sindrome emolitico-uremica e da qui la morte.
 
Ci cominciammo a chiedere come potesse essere successo. Dovevamo risalire al laboratorio che l’aveva prodotto per capire con quale tipo di coltura era stato generato. Solo studiando un agente di blocco della coltura avevamo speranza di bloccare la proliferazione del batterio killer. Ogni tanto Herr Katz veniva a visitare i laboratori e con un pennarello nero spuntava la data sul calendario, giorno dopo giorno, in una specie di cinico count down dei fatidici ventotto giorni che ci aveva concesso, prima che dovessimo effettuare la "autocontaminazione dell’onore", come l’aveva battezzata.
Franz, che è il mio collega più fidato, mi riferì un particolare che mi fece trasecolare. Disse che una volta nel laboratorio era capitato che lui avesse in mano dei vetrini ottici. Aveva incrociato Herr Katz che aveva improvvisamente cominciato a tossire. Si era dunque recato nel gabinetto di microscopia e, inavvertitamente, aveva notato che qualcosa era stato sparato sui campioni direttamente dalla bocca di Herr Katz. Gli ingrandimenti a quattromila lineari rivelavano che si trattava di microorganismi invisibili a occhio nudo che avevano la forma di un bozzolo cilindrico sostenuto da dieci minuti tentacoli. Non riuscivamo a capire, sembrava che fossero stati generati da una di quelle piante che si propagano per sporogenesi, allorché il frutto maturo dell’infiorescenza esplode e, come un cannone, diffonde nel vento le spore per la riproduzione.

Non eravamo soddisfatti. Decidemmo di andare a fare visita presso l’abitazione del nostro capo approfittando di una sua breve trasferta negli Stati Uniti. Io e Franz scavalcammo la recinzione della sua villetta di Dubendorf alla periferia di Amburgo. Sul retro della casa c’era una specie di serra. All’apparenza sembrava una di quelle che milioni di famiglie usano in Germania per coltivare la lattuga nei mesi invernali. Poi ci sporgemmo bene per vedere. All’interno, disposte in maniera ordinata con dei sofisticatissimi display di sorveglianza, c’erano centinaia di provette in cui crescevano degli strani germogli. Facemmo per entrare. E fu allora che siamo stati catturati.".

Jürgen Swartzkopf fece una pausa. Non aveva più forze. L’interrogatorio era durato diverse ore. Il sudore gli inzuppava la camicia. I lacci con cui era stato immobilizzato, gli avevano acceso dapprima un formicolio nelle gambe giù fino alle caviglie e poi una preoccupante sensazione di paralisi. Era sconvolto. Si decise a tentare di chiedere un bicchiere d’acqua a quello strano essere che lo sorvegliava a vista.

Di fronte a lui, un enorme e viscido organismo a forma di germoglio di soia con due gemme che sembravano occhi e quattro arborescenze laterali che usava come mani, lo osservava senza tradire alcuna emozione. In mezzo alle gemme una piccola fessura da cui sporgeva una lingua blu dalla quale l’essere emetteva ritmicamente dei sibili sommessi. Il germoglio gigantesco si sporgeva in avanti come per studiare le reazioni di Jürgen. Non rispose alla sua richiesta di acqua. Dopo qualche minuto sopraggiunse un altro germoglio gigante. Jürgen lo riconobbe, era lo stesso che gli aveva rivolto le domande dopo la sua cattura. Sembrava una riproduzione ingigantita delle gemme di fagioli neri della varietà Mung. Aveva una infiorescenza rossa sul corpo principale alla base delle alette. Era il capo di quella unità, parlava tedesco. Si rivolse al germoglio soia e disse: "Questo qua ha già vuotato il sacco. Mettetelo nel tritacarne per fare fertilizzante e portatemi l’altro per interrogarlo".


© testo e foto di Stefano di Stasio / ® Riproduzione riservata

venerdì 23 marzo 2012

Finché morte non ci separi

di Stefano di Stasio


Stavo attaccato con il naso sul vetro. Dall’altra parte cinque lettini. Sembrava una navicella spaziale. Su ogni branda una serie di monitor passava allo sguardo distratto del medico in servizio l’eco dei segnali fisiologici dei pazienti del reparto rianimazione. Un tubo abbastanza spesso scendeva come un pitone verso il viso dei pazienti con la bocca spalancata a forma di mascherina, tesa nello sforzo di divorarli. Nessuno dei pazienti si muoveva. Dai picchi del battito cardiaco emergeva il loro stato di viaggiatori, a metà fra questo mondo e l’aldilà. Mi soffermai sul letto a sinistra. Era un uomo. Bruno, di bell’aspetto, alto tanto da sfiorare con i piedi le sbarre all’estremità del letto. Mi voltai alla mia sinistra, là dove sentivo un rumore intermittente. Era una donna che singhiozzava cercando di trattenere il pianto.
"È mio marito" mi disse, quasi si vergognasse del suo sfogo
"Abbiamo due figli ancora piccoli. Ieri sera si è sentito male appena rincasato dal lavoro. È sbiancato e si è accasciato su una sedia. Io non so guidare, ho dovuto chiamare un’ambulanza. Abitiamo in paese. C’è voluta più di mezz’ora per arrivare fin qui. Povero Renzo. Il medico di guardia al pronto soccorso ha parlottato con un infermiere e ha disposto il ricovero. Dice che non se la caverà. Aneurisma dell’aorta."
Ebbe un sussulto, si asciugò le lacrime, poi continuò con un tono di voce più freddo:
"Ci siamo conosciuti quando lui aveva quindici anni e io tredici. Siamo insieme da una vita. Abbiamo affrontato tante difficoltà. Mai un momento di crisi fra noi. Quando è nato il nostro primo figlio, il nostro rapporto è cambiato. Renzo sembrava assente, non riusciva a trovare il suo nuovo ruolo in famiglia. Poi, piano piano, con l’aiuto di Dio, abbiamo ritrovato la nostra unione. È venuto il secondo figlio. Era una bella famiglia, e adesso… "
Si chiamava Elena. Mossa da un bisogno insopprimibile di sfogo, continuava a parlarmi quasi automaticamente, fermandosi a tratti per asciugarsi le lacrime, quando la tensione si scioglieva in un pianto dirotto soffocandole le parole in gola.

Come era diversa la sua storia dalla mia. Volsi lo sguardo sul lettino di destra. Dalla maschera a ossigeno emergevano i capelli di Manuela, mia moglie. L’avevo conosciuta quando ancora faceva la prostituta in un quartiere bene di Roma. Aveva venti anni meno di me. Riceveva i clienti solo per appuntamento. Sul suo sito mi aveva colpito perché anziché mostrarsi nuda, aveva riportato la foto di una mela avvolta in una delicata lingerie di colore nero. Sembrava sottintendere con malizia "Mordimi". E così avevo telefonato e concordato un appuntamento. Mi era parsa un po’ impacciata, forse il fatto di mostrarsi in carne e ossa la imbarazzava. Sulle labbra che spiccavano su una carnagione bruna aveva messo del rossetto verde. Questa volta la lingerie era al posto giusto. Il nostro rapporto mercenario era continuato per un po’ finché un giorno mi aveva detto:
"Sono stanca di questa vita. Sono stanca di sorbirmi gli umori dei miei clienti pieni di soldi. Di sopportare le loro fantasie assurde. Pensa che uno ieri voleva fare l’amore e contemporaneamente pretendeva di stringermi la gola con una corda per soffocarmi. Altri vogliono essere frustati. Anche le donne non le sopporto. Vogliono vivere la loro bisessualità. Ma non hanno il coraggio di ammetterlo in pubblico. E si rivolgono a me. Portami via da questo posto, da questa città. Sarò una moglie perfetta, te lo prometto. Sono stufa. Non ce la faccio più a prepararmi con queste creme schifose, a depilarmi tutto il tempo e a fare la fame per mantenere un fisico che possa sempre eccitare. Ho voglia di piacere solo a te. Voglio stare in casa, prepararti da mangiare, avere il tempo di riflettere sulla mia vita"
Lì per lì non seppi rispondere alla sua domanda. Mi chiedeva di condividere la mia esistenza che, per quanto agiata, comunque non era in grado di conferire nelle sue mani quelle cifre a quattro zeri che si procurava facendo la escort. Per qualche giorno non ci sentimmo. Poi alla fine mi dissi:
"Mah, perché non provare, chissà quanti uomini sposano delle prostitute e non lo sanno neppure. Almeno Manuela è stata sincera. Ha voglia di stare con me. Sono solo, vediamo se funziona".

E così ci sposammo con una cerimonia riservata in una piccola cappella abbarbicata sui contrafforti degli Appennini, non lontano dal passo della Futa. Invitai quei pochi amici che mi erano rimasti dopo l’università e che non vedevo da tempo. Mi guardai bene dal raccontare come avevo conosciuto la mia prossima moglie. Andammo a vivere nel mio appartamento. Andò tutto bene. Lei era impaziente di dimostrare a se stessa che poteva essere una donna normale e una sposa devota. Era premurosa. Non capiva nulla di cucina eppure cominciò a studiare su alcuni manuali come poteva prepararmi da mangiare.
Riuscii a dedicare più tempo a me stesso. Cominciai a pubblicare delle recensioni su una rivista di vini. Sentirsi voluti bene ti dà opportunità. Potei perfino non pensare troppo al mio lavoro. Durante la settimana mi assentavo spesso da casa, sbattuto come una pallottola impazzita nei posti dove il mio capo mi diceva di andare, spinto dalle sue intuizioni commerciali che a me sembravano il delirio di un folle. E, tuttavia, riuscivo a sorridere della sua grettezza. La mia nuova vita di coppia mi aveva dato una serenità insospettata.

Quella mattina ero in ufficio a controllare delle pratiche e a inserire gli ordini nel software di contabilità. Mi avevano telefonato dall’ospedale. I vicini l’avevano vista uscire di casa e poi perdere i sensi. Qualcuno aveva chiamato un’ambulanza. Ero corso, l’avevo trovata direttamente in sala rianimazione. Mi avevano spiegato che aveva ingerito dosi massicce di psicofarmaci e antiepilettici. Ma perché lo aveva fatto? Non mi ero accorto di nulla.
Mi trovavo ora a condividere la stessa sorte della mia vicina di postazione, Elena, che piangeva per il marito. Venne la sera. Ci invitarono a uscire. La mattina dopo non trovammo nessuno in sala. Renzo e Manuela erano deceduti nel corso della nottata. Ci dissero che erano stati spostati in obitorio. Con Elena a passo veloce raggiungemmo il seminterrato. Non ci fecero entrare, dissero per motivi di sicurezza. Era la fine che ci aveva preannunciato, nemmeno con tanto tatto, il medico di guardia già il giorno prima. Restammo inebetiti davanti a quella porta di ferro, incapaci di scambiare nemmeno una parola. Poi qualcuno si avvicinò per indicarci dove potevamo contattare il servizio di pompe funebri.
Quello che successe dopo è quello che succede sempre quando c’è un morto in famiglia. Ordinammo la bara. Ci fu una messa nella cappella dell’ospedale. Poi insieme, ai familiari di Elena, accompagnammo le due bare al cimitero che era non distante dall’ospedale.

Non rividi più Elena per diversi anni. La mia vita era corsa come una nuvola sbattuta dai venti. Ero stato incapace di ritrovare quell’amore che Manuela mi aveva regalato negli anni in cui era stata con me. Avevo continuato a inseguire gli stand e le fiere che il mio capo seguitava a programmare nella sua pazzia. Poi, in una mattina d’autunno, stanco del mio lavoro, mi ero diretto al parco. Guardavo gli alberi che si spogliavano lentamente dei loro colori e lanciavano i rami nudi in alto, come urla disperate verso il cielo. Dal di sotto della panchina sentii qualcosa sfiorarmi il polpaccio. Una volta, poi una seconda. Mi sporsi per vedere. Era un piccolo yorkshire che mi fissava con gli occhi scuri e lucenti.
"Stupido cane, vaffanculo! Cosa vuoi da me? Lasciami perdere!" dissi a bassa voce mentre il mio sguardo si appuntava sul ridicolo fiocco legato sul pelo, fra le orecchie. Mi mostrò la lingua, scodinzolando. Intuii le sue intenzioni e feci per muovere una impacciata carezza.
"Briciola, lascia stare il signore!" udii urlare in direzione del vialetto. Era una signora, ben vestita, che si avvicinava con passo spedito. Sul momento non la riconobbi. Si fermò dopo qualche metro, mi fissò un attimo e con un sorriso mi disse:
"Renzo! Cavolo, ne è passato di tempo. Ma tu guarda, che piacere rivederti lontano da quel maledetto ospedale!".
Era Elena. Chissà perché, dopo tanto tempo l’avrei immaginata di aspetto trasandato, con i capelli non curati, vestita di nero. Invece no. Eccola qua, il trucco rifatto, un rossetto perla che gli illuminava il viso nella cornice di una messa in piega perfetta. Un tailleur blu e una sciarpa provenzale le donavano un tocco vanità.
"Ti trovo molto bene. Sono contento per te. Io sto ancora male. E i tuoi bambini? Avrei voluto dirti allora una parola di conforto ma non ne fui capace, scusa".
Mi guardò con aria come stizzita, quasi esitando a parlare. Poi non riuscì più a trattenersi e sbottò:
"Ah, Renzo! Quel bastardo, il marito devoto della mia vita! Mi ha mandato in psicanalisi. Da qualche mese sto cercando di venirne fuori. Aveva combinato tutto con il medico di guardia e l’infermiere. Si era finto morto per filarsela con una donna molto più giovane di lui. Non so dove sia sparito ma di sicuro so che non mi ha mandato più un soldo per i nostri figli. Qualcuno dice che si sia messo con una ex-prostituta, una che aveva la mania di mettere le mele nelle mutandine nere per adescare i clienti. Ci pensi?".


© testo e foto di Stefano di Stasio 2011 / ® Riproduzione riservata


venerdì 9 marzo 2012

Parallele

di Stefano di Stasio

 
La mamma era morta da una settimana. Alfredo Zappelli era figlio di padre ignoto. Lo aveva sempre saputo. Aveva abitato con la madre nel rione popolare della periferia nord. Della sua infanzia non ricordava granché. La scuola elementare era per lui un ricordo sgradevole. Abate, Capotosto, Cellola, Di Matteo, e così via giù andare per altri venticinque nomi finché alla fine, dopo una palpitante attesa, Zappelli. La sua maestra si chiamava Lina era brutta e antipatica e, inoltre, quando si avvicinava aveva l’alito puzzolente.
Per Alfredo la domenica non era mai stata un giorno felice. Il lunedì, tornando a scuola, gli altri bambini di solito raccontavano che erano usciti con il papà, che finalmente avevano avuto modo di giocare con lui che era sempre a lavorare. Mica come durante la settimana quando papà rincasava la sera stracciato dalla fatica e sprofondava sul divano davanti alla televisione pochi minuti prima di addormentarsi. Alfredo no. Il padre non l’aveva mai conosciuto, mamma Adelina, non voleva parlarne. Aveva saputo dallo zio Ernesto che la madre, quando aveva partorito, aveva sedici anni. Poi anche lo zio aveva interrotto il discorso. La mancanza di uno dei genitori gli provocava una difficoltà enorme nel parlare della sua famiglia, in realtà non si trattava nemmeno di una famiglia, lui aveva solo la madre e nemmeno questa era una vera mamma, sempre misteriosa come se volesse nascondere chissà che.

Erano passati trenta anni dal tempo delle elementari. Alfredo era cresciuto e dopo la scuola media aveva fatto pratica da un carrozziere. Aveva imparato bene a lavorare con le lamiere. Mastro Antonio, un vecchio operaio che stava per andare in pensione, gli aveva spiegato tutti i trucchi per saldare, giuntare, ribattere le lamiere contorte delle automobili. Era come una guerra. La crash bar aveva schiantato la barra di protezione della portiera sinistra, investendo il conducente che a sua volta era rimbalzato sul sedile destro mentre la macchina cominciava a fare testa coda ed era finito con la testa del parabrezza.

Quella mattina verso mezzogiorno Alfredo stava facendo colazione con gli altri operai. Dal cancello dell’officina spuntò la parte anteriore di un carro attrezzi. Ci risiamo, pensò Alfredo, eccone un altro. Un grosso suv, una Toyota 4x, con la fiancata completamente accartocciata, stava appollaiato sulla parte posteriore di un carro attrezzi come il cucciolo di uno scimpanzé in groppa alla madre. Dietro al carro, seguiva una vettura, anche quella di lusso, una BMW. Il capofficina uscì dalla rimessa e andò incontro ai nuovi venuti. Alfredo li osservò da lontano parlare.
"Non è stata colpa mia, è uscito un furgone all’improvviso da dietro una fila e mi ha distrutto la fiancata. Bastardo!".
E così via, come al solito. In tanti anni che faceva quel lavoro Alfredo non aveva mai sentito nessuno che ammettesse: "È tutta colpa mia, tutta fottutissima colpa mia. Sono una testa di cazzo, se fossi andato piano avrei evitato l’incidente". Niente da fare. Dalla macchina che seguiva era sceso qualcun altro, forse era un amico del conducente del suv. Aveva l’aria distinta, Alfredo se ne rese conto subito perché indossava uno di quei vestiti di quelle stoffe particolari a righi stretti ma poco vistosi, aveva un foulard nel taschino della giacca e un secondo avvolto sul collo di una camicia aperta bianca. Lo sconosciuto aveva gli occhiali scuri. Era alto come Alfredo, la stessa carnagione. Il fisico però era più gracile del suo. Lo sconosciuto si volse verso Alfredo, lo guardò come un extraterrestre che incontra un uomo, dopo un viaggio fra galassie sperdute di milioni di chilometri. Lo riguardò.
Alfredo non capiva. Cominciò a pensare a bassa voce:
"Cosa vuole questo qua? Bellimbusto, togliti questi occhiali neri, fatti riconoscere. Chi sei? Se sei venuto per prendermi per il culo, guarda che ti spezzo in due!".
Alfredo istintivamente cercò il martello dal lungo manico che usava sempre nel suo lavoro di battilamiera. Lo raccolse e cominciò a battere ritmicamente su un piccolo sgabello di ferro dove si andava a sedere sempre, dopo la pausa di mezzogiorno, per fumare. Picchiava. Lo sconosciuto si avvicinava. Picchiava, ancora. Picchiò più forte.
Il visitatore senza nome si fermò. Si tolse gli occhiali. Alfredo lo fissò per la prima volta in volto. L’espressione, la forma delle sopracciglia, il naso, il collo. Con la mano sporca di vernice si palpò il viso come per sincerarsi di non essere un fantasma. Strizzò gli occhi. Li riaprì. Udì l’uomo di fronte a lui dire qualcosa. Non capì. L’altro ripeté quasi le stesse parole.
Allora, come una forza misteriosa lo sollevasse da terra, Alfredo udì di nuovo la voce di sua madre che gli diceva: "Scusa Alfredo, avevo sedici anni, ero povera, non potevo fare diversamente quando ho partorito due gemelli".


© testo e foto di Stefano di Stasio 2011 / ® Riproduzione riservata


giovedì 1 marzo 2012

La gita

di Stefano di Stasio



Di quel piccolo stato, non lontano dal nostro, non si era mai saputo granché. Le frontiere erano state riaperte da pochi mesi e quindi decidemmo di organizzare una gita in autobus per visitarlo. Raccogliemmo le iscrizioni in parrocchia e noleggiammo un pullman con autista. Alla data convenuta ci ritrovammo tutti, armi e bagagli, nel grande piazzale della nostra cittadina. Il bus era nuovo di fabbrica, di colore rosso fiammante e con tutte le comodità per i viaggi di pochi giorni. Nella nostra comitiva c’erano la maestra Tiziana e la sua amica Flavia, Alfredo, un sanguigno pensionato con la moglie, Monica, la mia fidanzata con i genitori e io, naturalmente, Francesco La Grippa. Ricordo di aver provato subito diffidenza per l’autista del bus. Aveva occhi inespressivi e con l’iride velata. Si chiamava Ubaldo.
Passammo la frontiera dello stato e ben presto arrivammo nella capitale. Appena scesi dal pullman ci venne incontro un gruppo di ragazzi. Vedevano che eravamo stranieri e volevano darci il benvenuto. Ci regalarono dei fiori e portarono del tè al gelsomino. Alfredo pensò di pagare e tirò fuori dalla tasca una banconota. I ragazzi lo guardarono meravigliati e si rivolsero alla maestra Tiziana che comprendeva la loro lingua. Il denaro, in quel paese, era stato abolito dieci anni prima. Per ogni persona esisteva un sistema di credito individuale, basato sul lavoro che questa era in grado di svolgere e, inoltre, sul suo cosiddetto "indice di gentilezza". L’aiuto al prossimo veniva premiato moltiplicando il credito personale per due. Di queste diavolerie ne avevano inventate tante da quelle parti. Nei giorni che seguirono furono talmente tante per noi le assolute novità che ne perdemmo presto il conto.
Per esempio, le tasse e le bollette non esistevano, e tutte le fonti di energia erano ottenute dai rifiuti, dal sole e dall’acqua. Rimasi personalmente strabiliato nell’udire dalla viva voce del Sindaco, un missionario chiamato padre Adamo, che per ogni nuova coppia di coniugi veniva approntata una abitazione da parte dell’amministrazione comunale perché "bisognava preparare la terra promessa ai futuri concittadini".
Sulla strada del ritorno a casa mi incupii e anche Monica era turbata. Nel nostro paese dovevamo cercare un lavoro. Ammesso che fossimo riusciti a trovarlo, dovevamo stipulare un mutuo, forse per quarant’anni, di quelli cosiddetti "agevolati" per avere una casa. Di tasse non ne parliamo. Arrivammo immalinconiti nella piazza della nostra cittadina. L’autista del pullman ci invitò tutti a prendere un ultimo caffè al bar insieme prima di salutarci. Lasciammo borse e bagagli sui sedili e scendemmo. Faceva caldo. Ordinammo i caffè. All’improvviso mi voltai e scorsi una persona che, vestita di nero e indossando un casco integrale, sgattaiolava sul nostro autobus. Corsi fuori dal bar e riuscii a infilarmi attraverso la porta a scorrimento prima che scattasse la chiusura automatica. Il pullman partì a tutta velocità. Il tizio in nero alla guida aveva uno sguardo maligno. Mi urlò di non preoccuparmi. Decisi di non cercare di bloccarlo. Le strade erano piene di bambini, era l’ora dell’uscita dalle scuole. Il veicolo, lanciato in una folle corsa, poteva rovinare sui marciapiedi falciando i passanti. In quei pochi minuti il ladro ammise che Ubaldo era suo complice. Avevano architettato tutto nei dettagli. All’improvviso arrestò il bus in una vecchia rimessa di sfasciacarrozze. Ad aspettarlo c’erano altri loschi figuri. Mi dissero che potevo salire su un’auto rubata, che era nella rimessa, e andarmene. Mi sedetti al volante e girai la chiave. L’auto anziché partire in avanti si sollevò dal suolo. Uno dei malviventi aveva azionato la gru. Poi l’auto finì nella pressa. Inesorabilmente l’ingranaggio cominciò a fare il suo lavoro. Udivo lugubri scricchiolii e tonfi sordi mentre la pressa mi costruiva addosso una bara di lamiera su misura. Non sentivo più le gambe. Dai piedi già maciullati era salito su per i miei pantaloni un lago di sangue. Un dolore acuto al capo mi avvisava che il tettuccio della macchina di lì a pochi istanti avrebbe schiacciato la mia scatola cranica facendo schizzare il mio cervello sul volante. Lanciai un grido.
Erano le quattro del mattino. Bagnato fradicio di sudore mi misi a sedere sul letto tastandomi il capo che mi doleva forte.

© testo e foto di Stefano di Stasio 2011 / ® Riproduzione riservata