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sabato 31 marzo 2012

EHEC

di Stefano di Stasio


"Mi chiamo Jürgen Swartzkopf, il mio numero di matricola è 323567. Appartengo ad una unità speciale del Robert Koch Institute di Hamburg incaricata di svolgere sorveglianza su possibili attacchi batteriologici da parte di terroristi. L’unità di sicurezza biologica fu istituita dopo l’11 Settembre 2001 per prevenire il rischio di attacchi di antrace annunciati dai combattenti della jihad islamica.

Quando questa storia è cominciata pensammo ad una trovata giornalistica per boicottare i prodotti vegetali importati da fuori la Germania. Il nostro paese ha bisogno di comprare vegetali prodotti all’estero solo durante l’inverno. Quando subentra la primavera la nostra produzione è in grado, da sola, di far fronte alla richiesta interna. Per questo pensammo che la notizia del batterio killer fosse una trovata per stroncare l’importazione dei cetrioli dalla Spagna. Era successo un caso analogo per le fragole che provenivano dall’Italia qualche anno fa. Qualunque persona istruita sa che i batteri Escherichia coli sono presenti normalmente nell’intestino degli animali, incluso l’uomo.
La variante O104:H4 fu individuata nel 2004 nell’intestino di una donna Thailandese. A quell’epoca non c’erano prove che fosse infettivo. Noi sapevamo, già dal 1990, che il ceppo O104 possiede due geni che hanno delle caratteristiche spaventose. Sono così mortali che molte persone infettate sperimentano l’insufficienza critica di un organo e semplicemente muoiono perché, per esempio un rene, esplode in una emorragia dei tessuti e smette di funzionare.

Selezionammo campioni prelevati dai rifiuti delle persone infettate qualche mese fa. Il nostro direttore Johan Katz fece chiamare tutto il nostro gruppo nei laboratori di Amburgo. Fu categorico. Herr Katz sa essere estremamente convincente. Ci disse che avremmo avuto al massimo quattro settimane per fare i nostri esperimenti. Poi ci avrebbe costretti, uno per uno, a ingurgitare campioni di tessuto infettato dal batterio. Mentre ci annunciava questa sua irrevocabile decisione, cominciò a tossire senza potersi fermare. Herr Katz è pericoloso quando non riesce più a parlare fluentemente. Diventa tutto rosso, si agita contorcendosi e cerca di inseguire con la bocca aperta quelle parole invisibili che gli scappano sotto il naso mentre la sua gola è sconvolta da colpi di tosse secca a ripetizione. Concluse con difficoltà il suo discorso. Suo padre era stato un generale della Wehrmacht durante la seconda guerra mondiale. La tosse si interruppe e poté continuare: "Il mio onore, l’onore dell’Istituto che ho il privilegio di dirigere, viene prima di tutto. Se dovesse continuare a colpire, non ci sarà posto sufficiente per il batterio assassino e i vostri ridicoli posti di lavoro. Un ricercatore che non riesce a fronteggiare la calamità, sa bene cosa gli rimane da fare! Credo di non dover aggiungere altro."

Mi misi al lavoro. Fuggire non sarebbe servito a niente. Tutti i ricercatori dell’istituto non possedevano averi o denari. Pagavano tutto con una carta di credito dell’amministrazione e dormivano in case il cui affitto era pagato dall’istituto. Anche il passaporto era depositato nella cassaforte della contabilità.
Dopo una settimana io e i miei colleghi ci rendemmo conto di avere a che fare con il peggiore incubo della ricerca in microbiologia. Il batterio O104: H4 era un clone del Escherichia Coli enteroaggregante, perciò possedeva delle sonde che lo rendevano capace di ancorarsi alle pareti intestinali e ne rendevano impossibile l’espulsione per mezzo delle feci. Nei pazienti contaminati la tossina produceva la sindrome emolitico-uremica e da qui la morte.
 
Ci cominciammo a chiedere come potesse essere successo. Dovevamo risalire al laboratorio che l’aveva prodotto per capire con quale tipo di coltura era stato generato. Solo studiando un agente di blocco della coltura avevamo speranza di bloccare la proliferazione del batterio killer. Ogni tanto Herr Katz veniva a visitare i laboratori e con un pennarello nero spuntava la data sul calendario, giorno dopo giorno, in una specie di cinico count down dei fatidici ventotto giorni che ci aveva concesso, prima che dovessimo effettuare la "autocontaminazione dell’onore", come l’aveva battezzata.
Franz, che è il mio collega più fidato, mi riferì un particolare che mi fece trasecolare. Disse che una volta nel laboratorio era capitato che lui avesse in mano dei vetrini ottici. Aveva incrociato Herr Katz che aveva improvvisamente cominciato a tossire. Si era dunque recato nel gabinetto di microscopia e, inavvertitamente, aveva notato che qualcosa era stato sparato sui campioni direttamente dalla bocca di Herr Katz. Gli ingrandimenti a quattromila lineari rivelavano che si trattava di microorganismi invisibili a occhio nudo che avevano la forma di un bozzolo cilindrico sostenuto da dieci minuti tentacoli. Non riuscivamo a capire, sembrava che fossero stati generati da una di quelle piante che si propagano per sporogenesi, allorché il frutto maturo dell’infiorescenza esplode e, come un cannone, diffonde nel vento le spore per la riproduzione.

Non eravamo soddisfatti. Decidemmo di andare a fare visita presso l’abitazione del nostro capo approfittando di una sua breve trasferta negli Stati Uniti. Io e Franz scavalcammo la recinzione della sua villetta di Dubendorf alla periferia di Amburgo. Sul retro della casa c’era una specie di serra. All’apparenza sembrava una di quelle che milioni di famiglie usano in Germania per coltivare la lattuga nei mesi invernali. Poi ci sporgemmo bene per vedere. All’interno, disposte in maniera ordinata con dei sofisticatissimi display di sorveglianza, c’erano centinaia di provette in cui crescevano degli strani germogli. Facemmo per entrare. E fu allora che siamo stati catturati.".

Jürgen Swartzkopf fece una pausa. Non aveva più forze. L’interrogatorio era durato diverse ore. Il sudore gli inzuppava la camicia. I lacci con cui era stato immobilizzato, gli avevano acceso dapprima un formicolio nelle gambe giù fino alle caviglie e poi una preoccupante sensazione di paralisi. Era sconvolto. Si decise a tentare di chiedere un bicchiere d’acqua a quello strano essere che lo sorvegliava a vista.

Di fronte a lui, un enorme e viscido organismo a forma di germoglio di soia con due gemme che sembravano occhi e quattro arborescenze laterali che usava come mani, lo osservava senza tradire alcuna emozione. In mezzo alle gemme una piccola fessura da cui sporgeva una lingua blu dalla quale l’essere emetteva ritmicamente dei sibili sommessi. Il germoglio gigantesco si sporgeva in avanti come per studiare le reazioni di Jürgen. Non rispose alla sua richiesta di acqua. Dopo qualche minuto sopraggiunse un altro germoglio gigante. Jürgen lo riconobbe, era lo stesso che gli aveva rivolto le domande dopo la sua cattura. Sembrava una riproduzione ingigantita delle gemme di fagioli neri della varietà Mung. Aveva una infiorescenza rossa sul corpo principale alla base delle alette. Era il capo di quella unità, parlava tedesco. Si rivolse al germoglio soia e disse: "Questo qua ha già vuotato il sacco. Mettetelo nel tritacarne per fare fertilizzante e portatemi l’altro per interrogarlo".


© testo e foto di Stefano di Stasio / ® Riproduzione riservata

venerdì 23 marzo 2012

Finché morte non ci separi

di Stefano di Stasio


Stavo attaccato con il naso sul vetro. Dall’altra parte cinque lettini. Sembrava una navicella spaziale. Su ogni branda una serie di monitor passava allo sguardo distratto del medico in servizio l’eco dei segnali fisiologici dei pazienti del reparto rianimazione. Un tubo abbastanza spesso scendeva come un pitone verso il viso dei pazienti con la bocca spalancata a forma di mascherina, tesa nello sforzo di divorarli. Nessuno dei pazienti si muoveva. Dai picchi del battito cardiaco emergeva il loro stato di viaggiatori, a metà fra questo mondo e l’aldilà. Mi soffermai sul letto a sinistra. Era un uomo. Bruno, di bell’aspetto, alto tanto da sfiorare con i piedi le sbarre all’estremità del letto. Mi voltai alla mia sinistra, là dove sentivo un rumore intermittente. Era una donna che singhiozzava cercando di trattenere il pianto.
"È mio marito" mi disse, quasi si vergognasse del suo sfogo
"Abbiamo due figli ancora piccoli. Ieri sera si è sentito male appena rincasato dal lavoro. È sbiancato e si è accasciato su una sedia. Io non so guidare, ho dovuto chiamare un’ambulanza. Abitiamo in paese. C’è voluta più di mezz’ora per arrivare fin qui. Povero Renzo. Il medico di guardia al pronto soccorso ha parlottato con un infermiere e ha disposto il ricovero. Dice che non se la caverà. Aneurisma dell’aorta."
Ebbe un sussulto, si asciugò le lacrime, poi continuò con un tono di voce più freddo:
"Ci siamo conosciuti quando lui aveva quindici anni e io tredici. Siamo insieme da una vita. Abbiamo affrontato tante difficoltà. Mai un momento di crisi fra noi. Quando è nato il nostro primo figlio, il nostro rapporto è cambiato. Renzo sembrava assente, non riusciva a trovare il suo nuovo ruolo in famiglia. Poi, piano piano, con l’aiuto di Dio, abbiamo ritrovato la nostra unione. È venuto il secondo figlio. Era una bella famiglia, e adesso… "
Si chiamava Elena. Mossa da un bisogno insopprimibile di sfogo, continuava a parlarmi quasi automaticamente, fermandosi a tratti per asciugarsi le lacrime, quando la tensione si scioglieva in un pianto dirotto soffocandole le parole in gola.

Come era diversa la sua storia dalla mia. Volsi lo sguardo sul lettino di destra. Dalla maschera a ossigeno emergevano i capelli di Manuela, mia moglie. L’avevo conosciuta quando ancora faceva la prostituta in un quartiere bene di Roma. Aveva venti anni meno di me. Riceveva i clienti solo per appuntamento. Sul suo sito mi aveva colpito perché anziché mostrarsi nuda, aveva riportato la foto di una mela avvolta in una delicata lingerie di colore nero. Sembrava sottintendere con malizia "Mordimi". E così avevo telefonato e concordato un appuntamento. Mi era parsa un po’ impacciata, forse il fatto di mostrarsi in carne e ossa la imbarazzava. Sulle labbra che spiccavano su una carnagione bruna aveva messo del rossetto verde. Questa volta la lingerie era al posto giusto. Il nostro rapporto mercenario era continuato per un po’ finché un giorno mi aveva detto:
"Sono stanca di questa vita. Sono stanca di sorbirmi gli umori dei miei clienti pieni di soldi. Di sopportare le loro fantasie assurde. Pensa che uno ieri voleva fare l’amore e contemporaneamente pretendeva di stringermi la gola con una corda per soffocarmi. Altri vogliono essere frustati. Anche le donne non le sopporto. Vogliono vivere la loro bisessualità. Ma non hanno il coraggio di ammetterlo in pubblico. E si rivolgono a me. Portami via da questo posto, da questa città. Sarò una moglie perfetta, te lo prometto. Sono stufa. Non ce la faccio più a prepararmi con queste creme schifose, a depilarmi tutto il tempo e a fare la fame per mantenere un fisico che possa sempre eccitare. Ho voglia di piacere solo a te. Voglio stare in casa, prepararti da mangiare, avere il tempo di riflettere sulla mia vita"
Lì per lì non seppi rispondere alla sua domanda. Mi chiedeva di condividere la mia esistenza che, per quanto agiata, comunque non era in grado di conferire nelle sue mani quelle cifre a quattro zeri che si procurava facendo la escort. Per qualche giorno non ci sentimmo. Poi alla fine mi dissi:
"Mah, perché non provare, chissà quanti uomini sposano delle prostitute e non lo sanno neppure. Almeno Manuela è stata sincera. Ha voglia di stare con me. Sono solo, vediamo se funziona".

E così ci sposammo con una cerimonia riservata in una piccola cappella abbarbicata sui contrafforti degli Appennini, non lontano dal passo della Futa. Invitai quei pochi amici che mi erano rimasti dopo l’università e che non vedevo da tempo. Mi guardai bene dal raccontare come avevo conosciuto la mia prossima moglie. Andammo a vivere nel mio appartamento. Andò tutto bene. Lei era impaziente di dimostrare a se stessa che poteva essere una donna normale e una sposa devota. Era premurosa. Non capiva nulla di cucina eppure cominciò a studiare su alcuni manuali come poteva prepararmi da mangiare.
Riuscii a dedicare più tempo a me stesso. Cominciai a pubblicare delle recensioni su una rivista di vini. Sentirsi voluti bene ti dà opportunità. Potei perfino non pensare troppo al mio lavoro. Durante la settimana mi assentavo spesso da casa, sbattuto come una pallottola impazzita nei posti dove il mio capo mi diceva di andare, spinto dalle sue intuizioni commerciali che a me sembravano il delirio di un folle. E, tuttavia, riuscivo a sorridere della sua grettezza. La mia nuova vita di coppia mi aveva dato una serenità insospettata.

Quella mattina ero in ufficio a controllare delle pratiche e a inserire gli ordini nel software di contabilità. Mi avevano telefonato dall’ospedale. I vicini l’avevano vista uscire di casa e poi perdere i sensi. Qualcuno aveva chiamato un’ambulanza. Ero corso, l’avevo trovata direttamente in sala rianimazione. Mi avevano spiegato che aveva ingerito dosi massicce di psicofarmaci e antiepilettici. Ma perché lo aveva fatto? Non mi ero accorto di nulla.
Mi trovavo ora a condividere la stessa sorte della mia vicina di postazione, Elena, che piangeva per il marito. Venne la sera. Ci invitarono a uscire. La mattina dopo non trovammo nessuno in sala. Renzo e Manuela erano deceduti nel corso della nottata. Ci dissero che erano stati spostati in obitorio. Con Elena a passo veloce raggiungemmo il seminterrato. Non ci fecero entrare, dissero per motivi di sicurezza. Era la fine che ci aveva preannunciato, nemmeno con tanto tatto, il medico di guardia già il giorno prima. Restammo inebetiti davanti a quella porta di ferro, incapaci di scambiare nemmeno una parola. Poi qualcuno si avvicinò per indicarci dove potevamo contattare il servizio di pompe funebri.
Quello che successe dopo è quello che succede sempre quando c’è un morto in famiglia. Ordinammo la bara. Ci fu una messa nella cappella dell’ospedale. Poi insieme, ai familiari di Elena, accompagnammo le due bare al cimitero che era non distante dall’ospedale.

Non rividi più Elena per diversi anni. La mia vita era corsa come una nuvola sbattuta dai venti. Ero stato incapace di ritrovare quell’amore che Manuela mi aveva regalato negli anni in cui era stata con me. Avevo continuato a inseguire gli stand e le fiere che il mio capo seguitava a programmare nella sua pazzia. Poi, in una mattina d’autunno, stanco del mio lavoro, mi ero diretto al parco. Guardavo gli alberi che si spogliavano lentamente dei loro colori e lanciavano i rami nudi in alto, come urla disperate verso il cielo. Dal di sotto della panchina sentii qualcosa sfiorarmi il polpaccio. Una volta, poi una seconda. Mi sporsi per vedere. Era un piccolo yorkshire che mi fissava con gli occhi scuri e lucenti.
"Stupido cane, vaffanculo! Cosa vuoi da me? Lasciami perdere!" dissi a bassa voce mentre il mio sguardo si appuntava sul ridicolo fiocco legato sul pelo, fra le orecchie. Mi mostrò la lingua, scodinzolando. Intuii le sue intenzioni e feci per muovere una impacciata carezza.
"Briciola, lascia stare il signore!" udii urlare in direzione del vialetto. Era una signora, ben vestita, che si avvicinava con passo spedito. Sul momento non la riconobbi. Si fermò dopo qualche metro, mi fissò un attimo e con un sorriso mi disse:
"Renzo! Cavolo, ne è passato di tempo. Ma tu guarda, che piacere rivederti lontano da quel maledetto ospedale!".
Era Elena. Chissà perché, dopo tanto tempo l’avrei immaginata di aspetto trasandato, con i capelli non curati, vestita di nero. Invece no. Eccola qua, il trucco rifatto, un rossetto perla che gli illuminava il viso nella cornice di una messa in piega perfetta. Un tailleur blu e una sciarpa provenzale le donavano un tocco vanità.
"Ti trovo molto bene. Sono contento per te. Io sto ancora male. E i tuoi bambini? Avrei voluto dirti allora una parola di conforto ma non ne fui capace, scusa".
Mi guardò con aria come stizzita, quasi esitando a parlare. Poi non riuscì più a trattenersi e sbottò:
"Ah, Renzo! Quel bastardo, il marito devoto della mia vita! Mi ha mandato in psicanalisi. Da qualche mese sto cercando di venirne fuori. Aveva combinato tutto con il medico di guardia e l’infermiere. Si era finto morto per filarsela con una donna molto più giovane di lui. Non so dove sia sparito ma di sicuro so che non mi ha mandato più un soldo per i nostri figli. Qualcuno dice che si sia messo con una ex-prostituta, una che aveva la mania di mettere le mele nelle mutandine nere per adescare i clienti. Ci pensi?".


© testo e foto di Stefano di Stasio 2011 / ® Riproduzione riservata


venerdì 9 marzo 2012

Parallele

di Stefano di Stasio

 
La mamma era morta da una settimana. Alfredo Zappelli era figlio di padre ignoto. Lo aveva sempre saputo. Aveva abitato con la madre nel rione popolare della periferia nord. Della sua infanzia non ricordava granché. La scuola elementare era per lui un ricordo sgradevole. Abate, Capotosto, Cellola, Di Matteo, e così via giù andare per altri venticinque nomi finché alla fine, dopo una palpitante attesa, Zappelli. La sua maestra si chiamava Lina era brutta e antipatica e, inoltre, quando si avvicinava aveva l’alito puzzolente.
Per Alfredo la domenica non era mai stata un giorno felice. Il lunedì, tornando a scuola, gli altri bambini di solito raccontavano che erano usciti con il papà, che finalmente avevano avuto modo di giocare con lui che era sempre a lavorare. Mica come durante la settimana quando papà rincasava la sera stracciato dalla fatica e sprofondava sul divano davanti alla televisione pochi minuti prima di addormentarsi. Alfredo no. Il padre non l’aveva mai conosciuto, mamma Adelina, non voleva parlarne. Aveva saputo dallo zio Ernesto che la madre, quando aveva partorito, aveva sedici anni. Poi anche lo zio aveva interrotto il discorso. La mancanza di uno dei genitori gli provocava una difficoltà enorme nel parlare della sua famiglia, in realtà non si trattava nemmeno di una famiglia, lui aveva solo la madre e nemmeno questa era una vera mamma, sempre misteriosa come se volesse nascondere chissà che.

Erano passati trenta anni dal tempo delle elementari. Alfredo era cresciuto e dopo la scuola media aveva fatto pratica da un carrozziere. Aveva imparato bene a lavorare con le lamiere. Mastro Antonio, un vecchio operaio che stava per andare in pensione, gli aveva spiegato tutti i trucchi per saldare, giuntare, ribattere le lamiere contorte delle automobili. Era come una guerra. La crash bar aveva schiantato la barra di protezione della portiera sinistra, investendo il conducente che a sua volta era rimbalzato sul sedile destro mentre la macchina cominciava a fare testa coda ed era finito con la testa del parabrezza.

Quella mattina verso mezzogiorno Alfredo stava facendo colazione con gli altri operai. Dal cancello dell’officina spuntò la parte anteriore di un carro attrezzi. Ci risiamo, pensò Alfredo, eccone un altro. Un grosso suv, una Toyota 4x, con la fiancata completamente accartocciata, stava appollaiato sulla parte posteriore di un carro attrezzi come il cucciolo di uno scimpanzé in groppa alla madre. Dietro al carro, seguiva una vettura, anche quella di lusso, una BMW. Il capofficina uscì dalla rimessa e andò incontro ai nuovi venuti. Alfredo li osservò da lontano parlare.
"Non è stata colpa mia, è uscito un furgone all’improvviso da dietro una fila e mi ha distrutto la fiancata. Bastardo!".
E così via, come al solito. In tanti anni che faceva quel lavoro Alfredo non aveva mai sentito nessuno che ammettesse: "È tutta colpa mia, tutta fottutissima colpa mia. Sono una testa di cazzo, se fossi andato piano avrei evitato l’incidente". Niente da fare. Dalla macchina che seguiva era sceso qualcun altro, forse era un amico del conducente del suv. Aveva l’aria distinta, Alfredo se ne rese conto subito perché indossava uno di quei vestiti di quelle stoffe particolari a righi stretti ma poco vistosi, aveva un foulard nel taschino della giacca e un secondo avvolto sul collo di una camicia aperta bianca. Lo sconosciuto aveva gli occhiali scuri. Era alto come Alfredo, la stessa carnagione. Il fisico però era più gracile del suo. Lo sconosciuto si volse verso Alfredo, lo guardò come un extraterrestre che incontra un uomo, dopo un viaggio fra galassie sperdute di milioni di chilometri. Lo riguardò.
Alfredo non capiva. Cominciò a pensare a bassa voce:
"Cosa vuole questo qua? Bellimbusto, togliti questi occhiali neri, fatti riconoscere. Chi sei? Se sei venuto per prendermi per il culo, guarda che ti spezzo in due!".
Alfredo istintivamente cercò il martello dal lungo manico che usava sempre nel suo lavoro di battilamiera. Lo raccolse e cominciò a battere ritmicamente su un piccolo sgabello di ferro dove si andava a sedere sempre, dopo la pausa di mezzogiorno, per fumare. Picchiava. Lo sconosciuto si avvicinava. Picchiava, ancora. Picchiò più forte.
Il visitatore senza nome si fermò. Si tolse gli occhiali. Alfredo lo fissò per la prima volta in volto. L’espressione, la forma delle sopracciglia, il naso, il collo. Con la mano sporca di vernice si palpò il viso come per sincerarsi di non essere un fantasma. Strizzò gli occhi. Li riaprì. Udì l’uomo di fronte a lui dire qualcosa. Non capì. L’altro ripeté quasi le stesse parole.
Allora, come una forza misteriosa lo sollevasse da terra, Alfredo udì di nuovo la voce di sua madre che gli diceva: "Scusa Alfredo, avevo sedici anni, ero povera, non potevo fare diversamente quando ho partorito due gemelli".


© testo e foto di Stefano di Stasio 2011 / ® Riproduzione riservata


giovedì 1 marzo 2012

La gita

di Stefano di Stasio



Di quel piccolo stato, non lontano dal nostro, non si era mai saputo granché. Le frontiere erano state riaperte da pochi mesi e quindi decidemmo di organizzare una gita in autobus per visitarlo. Raccogliemmo le iscrizioni in parrocchia e noleggiammo un pullman con autista. Alla data convenuta ci ritrovammo tutti, armi e bagagli, nel grande piazzale della nostra cittadina. Il bus era nuovo di fabbrica, di colore rosso fiammante e con tutte le comodità per i viaggi di pochi giorni. Nella nostra comitiva c’erano la maestra Tiziana e la sua amica Flavia, Alfredo, un sanguigno pensionato con la moglie, Monica, la mia fidanzata con i genitori e io, naturalmente, Francesco La Grippa. Ricordo di aver provato subito diffidenza per l’autista del bus. Aveva occhi inespressivi e con l’iride velata. Si chiamava Ubaldo.
Passammo la frontiera dello stato e ben presto arrivammo nella capitale. Appena scesi dal pullman ci venne incontro un gruppo di ragazzi. Vedevano che eravamo stranieri e volevano darci il benvenuto. Ci regalarono dei fiori e portarono del tè al gelsomino. Alfredo pensò di pagare e tirò fuori dalla tasca una banconota. I ragazzi lo guardarono meravigliati e si rivolsero alla maestra Tiziana che comprendeva la loro lingua. Il denaro, in quel paese, era stato abolito dieci anni prima. Per ogni persona esisteva un sistema di credito individuale, basato sul lavoro che questa era in grado di svolgere e, inoltre, sul suo cosiddetto "indice di gentilezza". L’aiuto al prossimo veniva premiato moltiplicando il credito personale per due. Di queste diavolerie ne avevano inventate tante da quelle parti. Nei giorni che seguirono furono talmente tante per noi le assolute novità che ne perdemmo presto il conto.
Per esempio, le tasse e le bollette non esistevano, e tutte le fonti di energia erano ottenute dai rifiuti, dal sole e dall’acqua. Rimasi personalmente strabiliato nell’udire dalla viva voce del Sindaco, un missionario chiamato padre Adamo, che per ogni nuova coppia di coniugi veniva approntata una abitazione da parte dell’amministrazione comunale perché "bisognava preparare la terra promessa ai futuri concittadini".
Sulla strada del ritorno a casa mi incupii e anche Monica era turbata. Nel nostro paese dovevamo cercare un lavoro. Ammesso che fossimo riusciti a trovarlo, dovevamo stipulare un mutuo, forse per quarant’anni, di quelli cosiddetti "agevolati" per avere una casa. Di tasse non ne parliamo. Arrivammo immalinconiti nella piazza della nostra cittadina. L’autista del pullman ci invitò tutti a prendere un ultimo caffè al bar insieme prima di salutarci. Lasciammo borse e bagagli sui sedili e scendemmo. Faceva caldo. Ordinammo i caffè. All’improvviso mi voltai e scorsi una persona che, vestita di nero e indossando un casco integrale, sgattaiolava sul nostro autobus. Corsi fuori dal bar e riuscii a infilarmi attraverso la porta a scorrimento prima che scattasse la chiusura automatica. Il pullman partì a tutta velocità. Il tizio in nero alla guida aveva uno sguardo maligno. Mi urlò di non preoccuparmi. Decisi di non cercare di bloccarlo. Le strade erano piene di bambini, era l’ora dell’uscita dalle scuole. Il veicolo, lanciato in una folle corsa, poteva rovinare sui marciapiedi falciando i passanti. In quei pochi minuti il ladro ammise che Ubaldo era suo complice. Avevano architettato tutto nei dettagli. All’improvviso arrestò il bus in una vecchia rimessa di sfasciacarrozze. Ad aspettarlo c’erano altri loschi figuri. Mi dissero che potevo salire su un’auto rubata, che era nella rimessa, e andarmene. Mi sedetti al volante e girai la chiave. L’auto anziché partire in avanti si sollevò dal suolo. Uno dei malviventi aveva azionato la gru. Poi l’auto finì nella pressa. Inesorabilmente l’ingranaggio cominciò a fare il suo lavoro. Udivo lugubri scricchiolii e tonfi sordi mentre la pressa mi costruiva addosso una bara di lamiera su misura. Non sentivo più le gambe. Dai piedi già maciullati era salito su per i miei pantaloni un lago di sangue. Un dolore acuto al capo mi avvisava che il tettuccio della macchina di lì a pochi istanti avrebbe schiacciato la mia scatola cranica facendo schizzare il mio cervello sul volante. Lanciai un grido.
Erano le quattro del mattino. Bagnato fradicio di sudore mi misi a sedere sul letto tastandomi il capo che mi doleva forte.

© testo e foto di Stefano di Stasio 2011 / ® Riproduzione riservata


lunedì 6 febbraio 2012

Sheqel Grani di Poesia: Anna Ruotolo

Ó a cura di Stefano di Stasio. ® la riproduzione è riservata.


La nostra rubrica Sheqel apre il secondo numero dando il benvenuto a Anna Ruotolo. Si tratta di una autrice che, nonostante la giovane età, è già presente con due volumi nel panorama editoriale. Come da copione, le abbiamo chiesto di selezionare due poesie. Ci propone "Tuttitudine" e "I singolari sono plurali" che riportiamo qui di seguito. Ciò che accomuna le due liriche è un sentire vivo, quasi materiale, della condizione di solitudine. Con lei cercheremo di discutere in breve della dimensione delle contingenze in relazione al sentire, della percezione del tempo e delle presenze lontane nonché delle prospettive di chi, scrivendo di poesia, si accinge a trasferire le proprie liriche in una lingua diversa dalla lingua madre. La biografia che ci ha inviato è in fondo all’articolo.


--Buongiorno Anna. Comincerei a introdurre la sua poesia "Tuttitudine":

Tuttitudine

In sogno lanciavamo in cielo la paura,
"prendila Tu, Padre degli astri
e delle cortine fluorescenti di gas
".
Così Simone il cieco ballò senza
tastare l’universo con le mani
e Zita parlò senza capire.
Stringere le nostre gabbie toraciche
perché tenessero (e, oh sì, tenevano)
l’un l’altro, l’uno all’altra, l’una all’altro
finché non rischiarava il giorno dopo
e la grancassa dell’oceano
non ci accompagnava.

E la mattina dopo aveva la riserva
del dolore di pancia
"Tuttitudine…", ha detto il medico curante
— il musicista che la notte prima
aveva agganciato il fuoco alle dita,
la sua culla/pancia a quella di una donna
vedova di Solitudine —
"…primo fiore della felicità".

(da "Tuttitudine" in La generazione entrante – Poeti nati negli Anni Ottanta, Ladolfi editore 2011)


--"Tuttitudine" a prima vista sembra un neologismo fra "Tutti" e "Solitudine". Siamo soli, è questa l’angoscia che lei esprime in questo componimento? O al contrario la solitudine è condizione di gioia interiore, "primo fiore della felicità"?  

Buongiorno, Stefano. Tuttitudine è il mio personale contrario di "solitudine", sì. Nella lingua italiana il contrario di "solitudine" è "compagnia", ma mi ero soffermata a riflettere sul fatto che il concetto di compagnia rimanda, comunque, ad una moltitudine ristretta, una pluralità con dei limiti. Se questa pluralità integra, invece, tutti e proprio tutti allora non ci si può dimenticare di nessuno. Non volevo contrapporre una situazione negativa di solitudine ad una, auspicabile, di folla positiva e condivisione. La solitudine è necessaria, aiuta a conoscersi. Il successivo e altrettanto necessario passaggio, però, vuole suggerire che solo in compagnia si possono raggiungere e esplorare determinati territori. Il "primo fiore della felicità" è la tuttitudine, nel momento esatto in cui la si riconosce, la si prova.


--Nel suo componimento "E questa è casa mia e qui comando io" lei si esprime così:
"… quando avrò un divano mio, una caffettiera tutta mia, / la miscela di caffè che preferisco io, / un servizio di piatti tutto mio e quando avrò il mio campanello / e la mia cassetta per la posta, le mie orchidee sulla finestra, / quando le bollette dovrò pagarle io e le tasse arriveranno a me…".
Non crede che il progetto di vita di un giovane nella società della dittatura finanziaria possa essere seriamente compromesso? Quale prospettiva esiste secondo lei per l’autonomia dell’intelletto in una contingenza che si può definire critica, per usare un eufemismo?


Se volessimo leggere questo passaggio alla luce della situazione storica, sociale ed economica attuale italiana, non potrebbe che essere visto e inteso come un gioco alla proiezione, una situazione ipotetica e nulla più. Ma queste previsioni sono state scritte come se fossero un tempo distante, sì, ma certamente avverabile. In poesia l'ipotesi può diventare certezza forse perché qui ti è richiesto coraggio nel dire ciò che pensi, ciò che ti auguri accada. So che dire e augurarsi è una cosa e vedere accadere è ben altro. Non posso non dirmi preoccupata per tutto ciò che sentiamo dai nostri "custodi" e per quanto la vita di ognuno sia cambiata nel giro di pochi anni. Tuttavia smettere di progettare, costruirsi, avere un motivo per autodeterminarsi sarebbe una lenta morte. L'autonomia dell'intelletto, invece, si può conservare sempre e comunque. Non c'è situazione critica che tenga.


--Nella stessa poesia lei ammonisce:
"...i senza senno che verranno a casa mia / a ridurre in mortificazione e poco conto / ciò che di buono mi passa per la testa (fosse anche nuvola o tempesta)..." e continua "...saranno messi con educazione alla porta, / invitati a dire sempre le notizie con la semplicità dell'alfabeto, / - minimo e vitale - / a rispettare il tempo degli altri...".
Chi o che cosa vorrebbe che non bussasse mai alla sua porta?

Guardi, ha pescato nel web una poesia (volutamente piena, a volte esagerata) nata (per scherzo ma poi gradita da chi ha potuto leggerla), cresciuta e compiuta da/in un episodio autobiografico per niente rielaborato nel passaggio dal pensiero allo scritto. Per risponderle, purtroppo, le tocca ascoltare l’antefatto. Era la vigilia di Natale, primissimo pomeriggio, io e la mia famiglia, in tuta e ciabatte, consumavamo un pranzo frugale e intanto rassettavamo casa (veramente in disordine) e preparavamo gli ultimi pacchetti. Una normale situazione di una normale famiglia italiana alle prese con i preparativi del tradizionale cenone e in attesa della tanto agognata visita dei propri cari, insomma. Quel giorno, senza preavviso, sono venuti a casa due conoscenti per farci gli auguri. Potevano solo a quell’ora, tra un concerto e una recita dei bimbi, l’ultimo shopping sfrenato e la cena dal magistrato; avevano incastrato tutto per bene e noi eravamo riusciti a conquistarci un piccolo spazio in mezzo alle loro cose più importanti, tanto da non doverci preoccupare del disordine, del loro piombarci in casa senza che avessimo ricevuto neppure una telefonata e della nostra mise poco consona. Tanto più perché se non in quel momento non avremmo potuto godere affatto della loro presenza. Le risparmio i discorsi fatti davanti al caffè. Be’, ecco, queste persone vorrei non bussassero alla mia porta. A meno che non decidano, almeno, di avvertire (nella poesia lo dico). È che io vivo ancora con i miei…


--Veniamo alla seconda opera che ci propone "I singolari sono plurali":

I singolari sono plurali
 
[…] di nuovo dicendo anche per le ultime
volte c’è un’ultima volta […]
Samuel Beckett

Sì, tutto con eccesso:
la luce, la vita, il mare!
Plurale tutto, plurale
luci vite e mari.
Pedro Salinas
I singolari sono plurali
dico casa e ne dico mille
perché se guardo fuori da qui
tante ce ne sono,
pulsano da non finire.
Il numero è la convenzione
che ci siamo dati prima di farci
spazio attorno, di vederci andare.
Se parlo al singolare fa meno male
il solo, la solitudine che fuma
di tetto in tetto, unica unità
che ci distingue ombra dalle ombre,
acqua dalle acque.
E a tutta questa storia sembra venire
in più uno straniero che non ti porta
in tasca (perché non ne ha nemmeno
una — se due non ne può avere —)
tu non gli sei neppure famigliare
in una stampa, una fotografia
così come lo sei per me
ma chiama, chiama tutti
con centomila nomi esatti
si esce, così, infine, dalle dimore
e camminiamo in stormi
si prova a fare bene
tutto e forte, tutto al plurale
per una volta tra le altre volte
.

(Anna Ruotolo)



--Ritorna il tema della solitudine "che ci distingue ombra dalle ombre, / acqua dalle acque…". L’immagine che lei evoca sembra esprimere un anelito di speranza " si esce, così, infine, dalle dimore / e camminiamo in stormi / si prova a fare bene / tutto e forte, tutto al plurale / per una volta tra le altre volte…". Eppure la citazione che fa di Beckett tratta da "Cascando" sembra un inno all’ansia di relazione. Infatti si conclude:
" …di nuovo atterrito / di non amare / di amare e non te / di essere amato e non da te / di sapere di non sapere di fingere / fingere / io e tutti gli altri che ti ameranno / se ti amano. / A meno che ti amino."
E dunque che cosa significano gli altri, ansia o speranza ?


"Cascando" è una meravigliosa poesia che contiene passaggi anche veloci, un procedere largo e pieno, una somma di situazioni che necessitano di una lettura lunga, anche ripetuta. Sebbene la parte che lei riporta sia di un fascino indiscutibile, io riflettevo su quella che ho citato, invece, e che dice: […] di nuovo dicendo anche per le ultime /volte c'è un'ultima volta […]". Stando a quanto citato, gli altri sono speranza. Magari quell’ultima speranza positiva, quella "buona volta" da cogliere al volo prima che svanisca per sempre.


--Nella sua lirica Anghelos lei scrive:
"…che quasi mi dormi accanto / è scritto nel rumore della pioggia / nel tremito aguzzo delle acque…"
Ci può parlare di questa materia e di queste sensazioni che descrivono il suo rapporto con questa entità metafisica?


L’anghelos di questa poesia è l’ombra familiare di una persona reale, esistente, ma lontana. Nel ricordo dinamico di questa figura e poi nella convinzione che le lontananze non servono solo a distruggere ma anche a conservare intatto un sentimento profondo, cresce in noi il bene-comunque, l’affetto-nonostante.
 
 
--Quali sono i suoi lavori o le sue Sillogi che ritiene in senso lato più universali?

Le poesie aperte a una dimensione plurale. La silloge "Tuttitudine" pubblicata in "La generazione entrante. Poeti nati negli Anni Ottanta" (Ladolfi editore, 2011 – a cura di Matteo Fantuzzi e con una prefazione di Maria Grazia Calandrone) può andare bene come esempio.
 
 
--Nella sua biografia è scritto che alcune sue liriche sono tradotte in inglese e spagnolo. Come affronta il problema della traduzione delle sue liriche in un’altra lingua?

Alcune poesie sono state tradotte in spagnolo, altre pubblicate (in italiano) in una bella rivista italo-newyorkese, Italian Poetry Review, accanto a testi di poeti italo-americani, dunque in lingua inglese. Le mie, per ora, trovano solo il favore dello spagnolo e la generosità e l’intelligenza ispirata di Jesús Belotto, un mio coetaneo che scrive (ha pubblicato una bella plaquette, in Spagna), traduce e ha già insegnato all’Università di Montpellier e ora in quella di Alicante. Una persona straordinaria. Non ho mai vissuto la traduzione delle mie poesie in un’altra lingua come un problema. Negli ultimi tempi Jesús sta traducendo per me altri scritti ed è sempre un reciproco arricchimento, un modo per imparare l’una dall’altro e viceversa, per allargare i significati. In più, credo che le mie poesie suonino benissimo in lingua spagnola!


BIOGRAFIA di Anna Ruotolo
Anna Ruotolo (1985) vive in provincia di Caserta. Suoi testi sono apparsi in varie riviste (tra cui "Poesia" di Crocetti e "Italian Poetry Review") e in blog e riviste online. È presente in varie antologie poetiche. Tra le altre si segnala: "La generazione entrante. Poeti nati negli Anni Ottanta" (Ladolfi editore, Borgomanero, 2011 – a cura di Matteo Fantuzzi e con una prefazione di Maria Grazia Calandrone). "Secondi luce" (LietoColle, Faloppio 2009) è la sua opera prima. È in uscita, per i tipi di Raffaelli, un suo nuovo lavoro, "Dei settantaquattro modi di chiamarti".
 
 
Ò Articolo realizzato da Stefano di Stasio il 3 e 5 Febbraio 2012. Ogni riproduzione è riservata

venerdì 27 gennaio 2012

Sheqel Grani di Poesia: Elena Leica

Ó a cura di Stefano di Stasio

 
Il primo appuntamento di Sheqel è con Elena Leica, un’autrice che spesso si incontra sui social network. Le abbiamo chiesto di proporci due poesie della sua produzione recente. Ha scelto "Quel bacio mai dato" e "Animo di nebbia". Le riportiamo nel corso dell’intervista. Abbiamo lasciato inalterato il testo scritto da Elena che, come vedrete, usa in maniera personale i segni di interpunzione. La sua biografia si trova in fondo all’articolo.



--Buongiorno Elena. Direi di introdurre la prima poesia che lei ha scelto per la nostra rubrica: "Quel bacio mai dato":

Quel bacio mai dato
Ricordi quel bacio mai dato
in quegli istanti segreti
nell'infinito dei tuoi occhi
... più belli delle stelle
lucidi,
bruni come la tua pelle
con riflessi bollenti
come il caffè del mattino
che riempie il respiro
nell'abbracciare il giorno.
Quel bacio mai dato
sognato fra tende
mosse dal tempo
e dal solletico allegro del vento
che ci sconvolge l'anima
fra raggi di sole, piogge
e brillanti fiocchi di neve?
Quel bacio mai dato
inesploso fra emozioni inebrianti
così estasiate da ricoprire
la nudità dell'anima.
Il tempo si era fermato
nell'attesa del brivido
di quel bacio
nel vortice di pensieri
inquieti
su labbra di desiderio.
Ricordi?
(Elena Leica)



--Ci può spiegare perché ha scelto per presentarsi a Sheqel Grani di Poesia "Quel bacio mai dato" e "Animo di nebbia"? Che cosa rappresentano per lei queste due liriche?

"Quel bacio mai dato"...rappresenta una preziosa sensazione conservata nel cuore.
"Animo di nebbia"...è una lirica particolarmente triste. A volte mi ritrovo avvolta dalla nebbia che oscura i riflessi del mio tempo...un ritorno nel passato, nell'oscurità di alcuni ricordi che mi seguono e mi tormentano...e piango spesso e mi pento "di quei resti di me" rovesciati nel vuoto, nei rimpianti...giudico me stessa di non aver curato di più...la mia immagine, il mio ego...ma tutto ciò...mi fa riflettere, mi dà forza, mi rigenera e sono convinta che se non sarei stata avvolta dalla nebbia...oggi forse non avrei saputo apprezzare fino in fondo la lucentezza del sole che brilla nella mia vita...


--Riportiamo dunque il testo di "Animo di nebbia":

Animo di nebbia
Grigio sofferente
macchia l'animo
e offuschi pensieri
cascano
nel rifugio interiore
come le foglie,
strappate dagli alberi
come lacrime,
che scorrono dagli occhi
nel pianto del cuore.
Svanite stagioni
giacciono nei rimpianti
e piove di nebbia
malinconica strega,
magra e buia,
fitta
come prepotente aria
soffocante.
Inginocchiando
all'anima,
prego,
grido
e chiedo quel perdono
che macina dentro
quella luce dell'ego
spenta
da oscuri e amari riflessi
di nebbia.
(Elena Leica)


--Lei ha scritto in una poesia intitolata "L’anima dello sguardo":
http://www.scrivere.info/poesia.php?poesia=244120&mid=57954

"Riflessi d’anima / nello sguardo mosaico / trasparente / lucido specchio / prezioso quadro vitale / dipinto dal cuore / nei ritmi essenziali…".
Ci vuole parlare di che cosa lei vede nel viso di una persona?

"L'anima dello sguardo" ...nel viso di una persona...osservo la sensibilità dell'anima che si legge negli occhi. Un impatto importante che permette di vedere oltre...uno specchio lucido, trasparente, prezioso quadro vitale...essenziale nei suoi riflessi interiori. Dentro lo sguardo c'è un insieme di colori, un mosaico di sensazioni, immagini, percezioni, tesori e misteri, una ricchezza senza limiti...la verità dell'essere.
 
 
--Nel componimento "quel bacio mai dato" ci parla di un’emozione sospesa nel tempo. Che cosa rappresenta nel vissuto di una donna l’amore che non si realizza, che rimane sospeso? Che senso ha innamorarsi di un’ombra?
 
"Quel bacio mai dato"...un modo di esprimere le sensazioni provate dal cuore nei momenti in qui questo misterioso bacio....non poteva essere dato. Emozioni vissute, sentite nei brividi del cuore nei tempi quando sembrava impossibile raggiungere l'amore desiderato. Fortunatamente oggi...quel bacio mai dato...brilla come un diamante nei riflessi di un amore raggiunto e mi riempie ogni giorno di felicità con i "baci dati passionalmente''.
Nel vissuto di una donna l'amore che non si realizza...che rimane in sospeso...secondo me, può aiutare l'animo di una donna...nell'immaginare che nel mistero...il desiderio d'amare rimane vivo sfiorando l'anima e corpo nell'istinto ribelle che si nutre dell'impossibilità dei sogni...e dai brividi d'attesa...che esplode il senso di vedere in "quell’ombra''...il suo amore ideale così, come l'ho desidera....e chi sa se da "quell’ombra''...un amore, amore vero...arriverà!!!....a me è successo...


--Nelle sue poesie viene rappresentato il ritmo del tempo che scorre. Pensa davvero che sia possibile arrestare questo fluire inesorabile? Il tempo non è forse il miglior rimedio in situazioni dolorose come la perdita dei propri affetti? Non crede che possa avere un ruolo taumaturgico il fluire del tempo?
 
...Lo scorrere del tempo...nelle mie poesie può essere fastidioso rispetto alla realtà....è solo uno sfogo interiore che scorre nei versi....a volte veloce, a volte lentamente...ci sono momenti quando vorrei fermarlo...a volte vorrei farlo scorrere nei ritmi dei secondi...forse perché il mio animo viaggia sempre tra passato, presente.....e vola nel futuro con le ali del cuore...sempre di corsa nel gustare la vita in tutti sensi....nelle gioie, nei dolori.

 
--Nel suo video su youtube "Impetuoso silenzio" lei si esprime così:
 http://www.youtube.com/watch?v=GLScZ4WGrJI&feature=share&mid=57

"…presuntuose stagioni / mi tormentano, / e piango, e rido / e piango ancora…
…e la mia voce / muore nel fiato / e se grido / non mi sento / e se sogno / non mi sveglio…"
Sembra che la sofferenza vissuta come tormento quotidiano sia il requisito necessario al sentire, a poter provare quella tempesta di emozioni che si manifestano nella poesia. Per lei che cos’è la sofferenza? Come dirà più avanti nella stessa lirica "qual è il senso della realtà" che lei cerca in "antiche dimore dove l’animo si rigenera"?
 
La poesia "Impetuoso silenzio"...l'ho scritta pensando ad una mia carissima amica. Il suo dolore, il suo perdersi nel vuoto mi ha emozionato fino alle lacrime che scorrono ancora dentro di me. Mi trovo spesso a viaggiare nel cuore delle persone e dentro il sentire, soffrire...ascolto il loro grido disperato...e da li che i miei versi piangono sulle righe...e la sofferenza prende il suo spazio con oscura prepotenza...logorando la memoria, la coscienza, l'anima e corpo...una potenza negativa che può distruggerti fino alle ossa...e non tutti hanno la forza di combatterla...


--Elena, può dire ai nostri lettori dove è possibile reperire una raccolta delle sue poesie? Oppure i siti web dove lei ha pubblicato di più?

C'è in corso la preparazione del mio primo libro (per ora riservata la comunicazione) appena possibile darò informazioni nel riguardo. Le mie opere sono pubblicate su siti: Scrivere; Parole d'amore; Poesia nuova; Eros poesia; Poeti e poesia ; Anime di poesia (pagina personale).
 
 
--Lei pubblica spesso suoi componimenti su facebook. Quale ritiene sia il ruolo dei social network nella relazione fra chi scrive e chi legge? Crede che ci siano limitazioni intrinseche alla comunicazione su tali reti ? O anche: pensa che il supporto informatico sia sufficiente a veicolare le emozioni pensate per essere scritte su carta, come è successo per lei da bambina con il suo piccolo quaderno?
 
Il network mi sembra un medium utile che permette una certa facilità e immediatezza nei contatti. Uno strumento fondamentale attraverso il quale io personalmente sono riuscita a dare voce...e ascolto alle mie opere avendo la possibilità di farmi conoscere e di conoscere altri poeti ed al contempo di relazionarmi con essi.
Il supporto informatico mi sembra in generale sufficiente...a veicolare le emozioni pensate per essere scritte su carta. Tuttavia secondo me è sempre piacevole leggere su un foglio di carta la ricchezza interiore di ogni poeta che lascia sulle righe come un testamento nel tempo...la sua poesia del suo animo....


BIOGRAFIA di Elena Leica
Mi chiamo Elena Leica, sono nata in Romania il 30 novembre del 1971 e vivo in Italia da oltre dieci anni. La passione per la scrittura e per la poesia in particolare mi accompagnano da bambina, quando nel giardino di mia nonna mi rifugiavo fra le pagine del mio quadernino, viaggiando con la fantasia. Ho da poco ricominciato a comporre liriche, ed è una cosa questa che mi riempie l'anima; è il respiro delle mie giornate che mi aiuta a superare i momenti difficili con serenità, forza ed ottimismo. Sono di natura una persona solare, sorridente, che ama le cose semplici... Sono un'inguaribile sognatrice! Mi piace la fotografia, viaggiare e... svegliarmi al mattino con una bella tazza di caffè fumante. Il resto lo diranno le mie poesie.

 Ò Articolo realizzato da Stefano di Stasio il 23 e 27 Gennaio 2012. Ogni riproduzione è riservata

Sheqel Grani di Poesia EDITORIALE

Ó Ò Sheqel Grani di Poesia è un progetto di Stefano di Stasio

I popoli che vissero nella regione fra il Tigri e l’Eufrate e nelle terre solcate dal Nilo e dal Giordano concepirono, circa 5000 anni fa, una unità di misura di peso, conosciuta con il nome di Sheqel. Usarono come unità di riferimento i semi di orzo. Il Sheqel, al plurale Sheqalim, era il peso di 180 grani di orzo corrispondente a circa 8 grammi.
Al nastro di partenza la nuova rubrica di Parole e Fotografie. Sheqel: Grani di Poesia. Perché il sentiero che collega parole ed emozioni passa per i suoni, le sillabe e i ritmi che sono destinati a germogliare come antichi semi nell’animo del lettore. Spesso dopo eventi apparentemente catastrofici e dolorosi. Come accadeva in tempi remoti dopo le esondazioni dei fiumi nel territorio della Mezzaluna Fertile, così, ancora oggi, da antichi semi gettati nella polvere, il fertile limo dell’immaginazione feconderà nuove e delicate gemme, il patrimonio condiviso della parte migliore dell’uomo.


Ó foto di Stefano di Stasio. Ogni riproduzione è riservata.

lunedì 9 gennaio 2012

Intervista a Cheikh Tidiane Gaye autore di “Curve alfabetiche”, silloge poetica

a cura di Stefano di Stasio

Dalla quarta di copertina:

…Ho curato la mia ferita nel ventre del flauto
non mordo il suono del vento
colgo l’aria per dissodare le bocche orfane di melodie
e seppellire le doglie delle notti tristi…


1. Buongiorno Cheikh. Vorrei cominciare l’intervista con una sua poesia che leggo in "Curve alfabetiche":

Che il sogno si nutra di incubo
non sorprende nessuno
che la notte si vanti del buio
ci rende solo felici
che l’alba dipinga di latte il cielo
ma dal profumo della parola
vorrei che si cantasse il futuro
perché domani sarà sempre una nuova alba.

Che cosa è per lei il futuro?

Il sogno è per essenza l’attività del poeta, il sognatore costruisce il suo mondo, la sua vita e tramite il suo potere linguistico e le sue emozioni ne esce come vero protagonista. Il futuro è quindi per eccellenza l’ideale del poeta, il traguardo, a volte raggiungibile a volte inavvicinabile, ma il sogno dà sempre speranza. Anche i poeti della tradizione orale africana hanno questa particolarità. Il futuro visto come il mondo reale e/o virtuale da costruire.
Il poeta si tuffa continuamente nel sogno e non si allontana mai della "Repubblica". È suo dovere denunciare, rivendicare, tracciare orizzonti nuovi e promettenti.

2. Il tema della parola ricorre nelle sue liriche. Per esempio in "Sono il maestro della Kora" inclusa in un’altra sua raccolta "Canto del Djali" dove scrive:
detesto le parole oscure e la sobrietà è la forza dei miei pensieri.
La storia è sulla punta delle mie labbra, la parola è il sangue
che vivifica le mie vene

Viene fuori un concetto di parola come embrione, sangue e vita, come acqua dei cuori assetati. Infine, lei canta di parole alate, partorite dall’accoppiamento di consonanti e vocali. Nella lingua Wolof parlata in Senegal diversi concetti nascono da dettagli legati al corpo, al fisico, la vita come respiro. Nelle culture delle società del terzo millennio, a est come a ovest, a nord come a sud, il linguaggio tecnico e gli aridi slang informatici sono tiranni. È evidente come si tende a sottovalutare il ruolo delle parole. Ci può descrivere l’aspetto fisico delle parole, come le immagine, quali sono per lei le loro qualità più "corporee"?

La parola nella tradizione poetica africana diventa il polmone del linguaggio in generale. L’effetto della parola è molto più potente del fulmine, del cratere del vulcano o dell’uragano. La memoria è rappresentata dalla parola quindi l’utilizzo richiede molto il senso elaborativo e conservativo. La modernità ha rivoluzionato molto, per il bene dell’umanità intera, i mezzi di comunicazione, la poesia ha un altro scopo: esteriorizzare le emozioni tramite la bellezza e l’arte della parola. La parola diventa luce e non tenebre.


3. Nella lirica "Non sono poeta" lei afferma: Taglio le mie sillabe nel fuoco della purezza, / sono l’angelo delle maschere, invisibile la notte / nelle tenebre delle parole / che tracciano i gloriosi canti dei guerrieri. / Non sono poeta, / lo sarò.
La poesia è da sempre legata alla leggenda. Nelle culture di derivazione ellenistica, siamo abituati alle gesta di eroi antichi che, come accade nell’Iliade o nell’Odissea, combattono mostri ed esseri malvagi dai poteri sovrannaturali per conquistare la luce e la conoscenza. Nella sua visione del mondo, qual è il ruolo della scienza e della conoscenza , di quella curiosità innata nell’uomo che lo spinge alla scoperta, a superare i limiti proibiti, a oltrepassare le "colonne d’Ercole" dei mari conosciuti?


I versi sono eloquenti. Attingo le mie strofe nel più profondo della mia cultura orale, ogni parola ha il suo peso, il suo significato e la sua genesi. La poesia orale si basa fondamentalmente, oltre che sul contenuto molto istruttivo e educativo, sul modo di tessere ogni verso, che diventa prima di tutto canto, ode e poi ritmo. La scienza farà il suo percorso, la poesia, ovvero la tradizione poetica, deve conservare la sua "coscienza" e la sua identità. È solo in questo modo che si potranno conservare le nostre radici, in un’epoca di mondializzazione, che tende, sempre di più, a seppellire il passato culturale dei popoli. L’esistenza delle maschere può essere interpretata come il mondo sovrannaturale, da un europeo, ma, per l’africano, non lo è affatto, perché gli dèi fanno parte della nostra vita. Le cerimonie africane dimostrano, ad esempio, una richiesta continua d’aiuto agli spiriti. Le odi rivolte agli spiriti sono numerose e sono poesie, come fossero strofe sfornate oralmente dal cantastorie e accompagnate dai ritmi dei tam-tam durante la stagione della pioggia, i funerali, i battesimi.


4. Alcuni suoi lavori sono in lingua Francese. Per esempio nella lirica "La linfa che canta" tratta da Ode nascente pag 68-69 leggiamo:

...J’ai semé des graines, a fleuri une plante.
J’en ai sculpté une plume et dans la sève une encre, le feuillage le message sublime comme édifice…


…Sois le poète aux vers de vérité et relève toi des Balkans, foule la terre parfumée d’Orient pour
soulever le rêve des peuples


Il ruolo del poeta è intimamente legato a immagini della natura. Quali sono nelle società multietniche i semi dell’amore universale? Quali colori immagina per una società che è destinata a essere sempre più crogiolo di etnie e crocevia di linguaggi?

Il bilinguismo è molto bello e permette al lettore di rilevare le differenze musicali e la "corrispondenza delle arti", come si dice. Il poeta è il moltiplicatore di progressi, il vate della società o della nazione in cui vive. Egli è il difensore ed il guardiano delle tradizioni culturali. Il contenuto dei suoi versi può essere di ogni di colore, il linguaggio ha il suo senso allattato dalle matrici linguistiche di appartenenza e non solo. Il poeta diventa ponte di culture.


5. Lei ci ha parlato spesso con devozione di Léopold Senghor Sédar. Trenta anni fa circa, quando esploravo per la prima volta la possibilità di visitare la Casamance, rimasi colpito da questa figura di poeta e presidente del Senegal, in un’Africa nera popolata all’epoca da dittatori e mercenari, in cui si versavano fiumi di sangue nelle stragi di pulizia etnica. Chi è per lei Senghor Sédar?

La vita dell’uomo è una leggenda. Politico ha un grande merito: è quello di aver fondato una nazione solidale. Ma rimaniamo sul personaggio letterario. Brillante studente, ottimo poeta, grande difensore della cultura del suo popolo e vero propugnatore di un movimentato la Negritudine che all’epoca è stato molto studiato in Europa e nel mondo. La sua creatività è stata lodata dai grandi studiosi. Conoscitore del latino e del greco, egli ha avuto anche il merito di incitare i popoli a sposarsi per l’eternità. Tale dottrina è l’universalità delle culture e dei popoli. Senghor ha aperto al mondo le vie universalizzanti e umanizzanti. È stato un grande visionario e le sue teorie sono oggi oggetto di ricerca. Fu l’uomo che difese l’esistenza della cultura della diaspora nera.


6. Leopold Senghor Sedar scrive "Donna nera" che lei ama ricordare spesso:

Donna nuda, donna oscura
Olio che nessun soffio increspa, olio calmo ai fianchi d’atleta, ai fianchi dei principi del Mali
Gazzella dalle giunture celesti, le perle sono stelle sulla notte della tua pelle…

Ci può parlare dell’Africa che immaginava Sedar Senghor e in quella che lei ha vissuto?

Il personaggio in questione fu un genio della parola, sapeva dare armonia e ritmo, suoni e immagini alle sue strofe. Con la parola ha saputo difendere la cultura del suo paese. Egli ha ridato dignità ad una cultura derisa nella storia per secoli.
 
" Donna nera, donna nuda" è molto nota come poesia, una cantilene in Africa francofona. Certo la poesia è un’ode alla donna nera, l’anafora che dà ritmo alla poesia si nota per prima. Il verso: "le perle sono stelle sulla notte della tua pelle" è molto simbolico. La donna considerata come astro (stelle). Infatti è una presa di coscienza dei valori della Negritudine, la liberazione delle tenebre a favore della conoscenza. Conviene rilevare che la donna viene elogiata. L’Africa è magnificata con l’evocazione del Mali e della fauna.


7. Nella cultura laica dell’Italia di oggi si fa fatica a indicare ai propri figli sia un’etica possibile sia una prospettiva di dignità dell’uomo. Lei ci parla ne "Il giorno": 
 …e non so in quale notte / canterò di nuovo per addobbare il mio albero / che rifiuta di fiorire i miei sogni.
Di che cosa parla lei con i suoi figli quando si discute della prospettiva, di che cosa diventerà l’uomo domani o forse già oggi?

Interpretare i versi di un poeta non è impresa facile. Il poeta è per natura una persona ambigua e nello stesso tempo limpida e sensibile. Il futuro è figlio del mistero e chi sa quello che accadrà viene chiamato " mago". Il sogno che svanisce, che " rifiuta di fiorire", i giorni difficili del passato e l’incertezza della vita mi interpellano. Ed è vero che a volte le esperienze partecipano molto all’incremento dell’uomo, ma nessuno augura che i suoi figli attraversino strade dolorose e faticose. Un buon padre non vuole vedere la sofferenza dei suoi figli.

8. Nel suo lavoro "Ode Nascente" edita da Edizioni dell’arco, 2008 lei parla di "Pelle nera" e ci regala tratti di lirica che sembrano scaturire dall’essenza stessa delle sue origini:

Ho ritrovato il mio sangue
La sillaba che raccoglie le stelle dell’unico cielo
La parola che canta il grano della sabbia
Il peso del ritmo e il tempio della cadenza…
…la tua pelle è canzone che fiorisce in parola
il vento della primavera, il peso notturno
la tua pelle non è la stuoia sdraiata nelle ceneri della viltà
è l’arte del tempio d’oriente e dell’occidente
che figlia le sillabe immortalate sotto il sole del Sahel …

Tidiane il suo modo di fare poesia mi fa ricordare per certi versi i componimenti di Sergej Aleksandrovič Esenin per la potenza evocativa delle parole. Di che cosa le parla la sua memoria, che cosa evoca nel suo animo quando scrive de il fuoco di mezzanotte e le parole degli anziani ?

Nella mia scrittura l’ode alla parola è un assioma importante. Non è una scelta personale, è una realtà profonda connessa alla mia realtà culturale che considera la parola come ossigeno. La parola rappresenta la memoria, il portatore di quella memoria fu il vegliardo e/o il cantastorie. Il versificatore africano mette sempre in evidenza la forza della parola come pilastro del suo racconto e dei suoi versi con l’uso molto articolato di sfumature, di ritmi, suoni e soprattutto di immagini.
Intorno al fuoco nelle serate leggendarie, una sola voce si faceva prevalere: era quella dei saggi depositari secolari della memoria collettiva e della dignità della cultura ancestrale. Questa è l’Africa che canto, che lodo, che valorizzo nella mia scrittura e nei miei versi.


9. Un’ultima domanda per un dubbio personale. In un suo componimento inserito nella raccolta "Curve alfabetiche" lei scrive:

Canto la bellezza dei fiumi
la brillanza del sole e della lunae non vorrei che l’essere amasse
il suo prossimo
l’amore nasce tramite la parola
strappo la dolcezza del remo
remo sin sulle spiagge della felicità.


Perché non vorrebbe che l’essere amasse il proprio simile o non ho ben inteso le sue parole?

L’amore, la concordia, l’unione, la fratellanza, la coesione sono i pilastri della mia scrittura. Canto la beltà in tutti sensi. Perché dobbiamo sopprimere l’altro? L’essere sottinteso come concetto di esistenza non deve offuscare il perimetro di sviluppo intellettivo dell’altro. Nel cerchio esistenziale l’altro occupa un posto importante, occorre più socialità e più apertura per la valorizzazione del nostro essere, della nostra esistenza.

© Intervista realizzata da Stefano di Stasio il 26 Dicembre 2011 e 6 Gennaio 2012. Pubblicata su Parole e Fotografie il 10 Gennaio 2012 / Ò Ogni riproduzione è riservata.

SCHEDA DEL LIBRO
 


Titolo: Curve alfabetiche
Autore: Cheikh Tidiane Gaye
Editore: Montedit

Data di Pubblicazione: Luglio 2011
Collana: Le schegge d’oro
ISBN: 9788865870808
Pagine: 40
Formato - Prezzo: Brossura - 6,50 Euro

Note: premiato con "L’imbuto del tempo" nella sezione Poesia Inedita del Premio Archè Anguillara Sabbazia 2010

lunedì 2 gennaio 2012

Intervista a Giusi Marchetta, autrice di “Dai un bacio a chi vuoi tu”, Premio Calvino 2007

a cura di Stefano di Stasio





Dalla quarta di copertina:

Non sono bravo nelle cose in cui ci vuole fortuna. Mai trovato un soldo per strada, parcheggio nell’ora di punta, la taglia giusta durante i saldi, la sorpresa decente nell’ovetto Kinder Sorpresa. Se compro un biglietto della lotteria, neanche controllo se è quello vincente oppure no. Controlla mia madre, poi in genere dice: "Quando smetti di comprarti ‘sti cosi?


1. Buongiorno Giusi. Comincerei dal racconto che dà il nome alla raccolta "Dai un bacio a chi vuoi tu". La filastrocca è cantata da un bambino, con le sue parole:
"…Gianni, che avrà avuto cinque anni e già i coglioni li sapeva rompere bene, da vero professionista…"
"…Ho afferrato Gianni, il rompicoglioni, l’ho tirato via. Per fare un po’ di scena l’ho pure preso in braccio. Lui ha cominciato a piangere e a sbracciarsi, l’ingrato, allora io l’ho stretto più forte e l’ho tenuto fermo, ed è allora che è successo, e l’ho sentita come una ferita, uno strappo. Una fitta, la prima proprio qui, in mezzo al petto…"
Sembra di cominciare la narrazione sulle scene di apertura del film "Certi bambini" di Andrea e Antonio Frazzi (2004) per sospenderla su un inedito primo piano di un aspirante pedofilo turbato nell’intimità dai primi sintomi di devianza. Ci vuol descrivere come nasce questa singolare narrazione?

La storia del giovane pedofilo, o meglio del ragazzo ossessionato dall’idea di essere attratto dai bambini, nasce da un fatto di cronaca risalente a qualche anno prima della stesura del racconto. Una testimone in un caso di pedofilia è stata uccisa davanti casa sua e il processo che riguardava una rete di pedofili insospettabili è stato archiviato per mancanza di prove. In un’intervista le maestre del figlio della vittima si auguravano di poter andare avanti come se nulla fosse successo. Non credevo alle mie orecchie: qualcosa era successo, anzi molte e brutte cose. Far finta di niente non avrebbe cancellato nulla. Non avrebbe guarito nessuno. Così ho cominciato a riflettere su quello che ci piove addosso all’improvviso, i demoni che non riusciamo a combattere e che cambiano tutto. Mi è sembrato interessante raccontare la storia partendo da un carnefice che è anche vittima. Non il cattivo della situazione, ma l’essere umano in balia del suo male.


2. La figura maschile dello stesso racconto, l’aspirante pedofilo di cui dicevamo prima, è senza dubbio un personaggio carico di empatia. È intelligente, colto, "il più fantasioso della classe", è fondamentalmente onesto, legge "Altrimenti che essere" del filosofo ebreo lituano Emmanuel Lévinas, guarda con distacco i film porno e la letteratura erotica. Insomma, è l’orco del paradiso o che cosa?

La rappresentazione del pedofilo viscido, adescatore, schiavo delle sue pulsioni non mi interessava. L’immagine dell’orco, per dire, è facile da odiare. Il mio protagonista è un universitario come molti, vive in una città poco stimolante, cerca di condurre una vita normale. Non è molto dissimile da me o da chiunque altro. È questo il punto: perché dovrebbe esserlo? Le nostre tendenze, le ossessioni, le perversioni, sono innestate in noi, si legano al nostro essere onesti, colti, simpatici. Siamo umani, niente di umano ci è estraneo: né la tensione al bene collettivo, né l’istinto a soddisfare i nostri desideri. Questo non giustifica ovviamente l’atto criminoso che danneggia gli altri e che è frutto di una scelta. Questo ragazzo prova o si convince di provare dei desideri che lo mettono in crisi e quindi ne soffre, si tormenta. L’empatia che sentiamo per lui deriva proprio da questa sofferenza che ci affratella, la pena che proviamo nel constatare che a volte siamo incapaci di sottrarci ai nostri inferni personali.


3. In testa al suo recente libro "L’iguana non vuole" lei cita una frase di Bertolt Brecht:
"Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati".
Lei si è seduta in "Dai un bacio a chi vuoi tu" dalla parte delle "vittime" in un certo senso, di quelli che subiscono l’ambiente, i condizionamenti sociali e le angosce più crude, la prepotenza, l’abbandono, la devianza, anche se poi emerge i quasi tutti i personaggi la voglia di riscatto e di rivalsa su quanto li ha oppressi. Una domanda difficile: che cosa ritiene siano oggi i fattori sociali più oppressivi e condizionanti nella vita di un uomo o di una donna in Italia?

È veramente difficile dare una risposta che non cambierei domani mattina. Credo però che a fronte di un enorme progresso tecnologico l’Italia continui a fare i conti con i residui di una mentalità chiusa, facile al pregiudizio e a un miope moralismo. Questo vale soprattutto per le donne che si confrontano quotidianamente con il sessismo e/o il paternalismo dei loro colleghi. A farmi paura più di ogni cosa comunque sono i luoghi comuni: sono difficili da scardinare, creano delle gabbie in cui contenere fatti e persone. Probabilmente poi, tra i fattori sociali più condizionanti inserirei la povertà intesa sia in senso economico che culturale: entrambe ci privano di mezzi utili alla comprensione del mondo e alla capacità di rapportarci agli altri in modo più giusto e solidale.


4. Una domanda di stile. I suoi racconti si snodano come un mosaico. Lei costruisce tante brevi tessere, caratterizzate separatamente da unità di tempo e di luogo per poi riannodarle, facendo salti spazio temporali notevoli. Ha mai provato per lo stesso racconto a cambiare la combinazione delle tessere del mosaico per vedere l’effetto che fa rispetto alla versione che compare su "Dai un bacio a chi vuoi tu"?

No, mai. Durante la stesura dei racconti mi è capitato di cambiare la combinazione dei pezzi o di inserirne di nuovi in cerca dell’effetto desiderato, ma non ho mai "ricostruito" un racconto dopo. Per la storia della geisha ho cambiato i tempi però. La prima versione si serviva del passato remoto e del trapassato per il piano temporale che si opponeva al presente e che è ambientato in Giappone. Per la versione finale ho utilizzato un presente storico che mi sembrava richiamasse meglio l’immobilità dei ricordi della protagonista.


5. Veniamo ad un altro racconto eccezionale per la sua delicatezza "Formiche rosse". Mi ha ricordato il film "Memorie di una Geisha" di Rob Marshall (2005) tratto dall’omonimo romanzo di Arthur Golden. Il suo racconto però è focalizzato sulla infanzia e l’adolescenza di questa bambina Sadako abbandonata in strada dal padre. La narrazione si svolge su due piani temporali, uno per le vicende della piccola Sadako e l’altra per quelle di Sadako adulta. I piani temporali si incontreranno alla fine. Il filo conduttore della parte di racconto dedicata a questa casa di appuntamenti giapponese sono i cinque atti d’amore che la "signora della casa" insegna alle sue giovani ospiti, l’arte che le giovani geishe devono imparare a indossare come un abito di lavoro: la pazienza è il primo, la sottomissione è il terzo, il silenzio è il quarto. E il secondo e il quinto atto d’amore quali sono?

Il secondo atto d’amore (di quello che la Signora chiama "amore") Sadako lo impara prendendosi cura di un cucciolo che le viene portato via dopo alcuni mesi. È la dedizione senza il possesso. L’ultimo atto d’amore è la fiducia: l’affidarsi all’ospite credendo che non le farà del male o che il male che le farà sarà sopportabile.


6. Nello stesso racconto emerge la figura di una vecchia inserviente della casa, una specie di tata delle giovanissime ospiti. Anche lei insegna qualcosa ed è una cosa importante che farà la differenza fra l’esperienza di mizuage, il primo rapporto sessuale così come la vivranno con gli ospiti della casa rossa separatamente Sadako e la sua amica Ayame, alla quale la vecchia non l’ha insegnata. Stiamo parlando della "canzone della sposa", un antichissimo canto che consente di dislocare la mente lontano dal corpo che sta soffrendo. Serve per evitare le sofferenze del mizuage. Alla fine della storia però Sadako lo sentirà riempire tutta la stanza in una situazione ben diversa, in un altro luogo e in un menage familiare stabile. Qual è il senso della conclusione del racconto?

Esattamente come per il protagonista di "Dai un bacio a chi vuoi tu", Sadako è imprigionata in una situazione da cui non può scappare. Cresciuta nella Casa Rossa, educata al servizio perenne dell’uomo a cui si accompagna, anche quando potrebbe liberarsi da questi schemi costrittivi, trasferitasi in Italia, amata da un marito dolce e rispettoso, non può fare a meno di rivivere il suo passato nel presente. La canzone della sposa che sente a tradimento in un momento di abbandono e di intimità con l’uomo che ama, le ricorda che non è libera affatto di amare e di scegliere la vita che vuole perché il suo passato la definisce ancora e quello che sembra un fare l’amore libero, naturale, è in realtà uno degli atti d’amore che ha imparato fin da piccola destinato a suo marito come se fosse uno dei suoi vecchi accompagnatori.


7. Il racconto che apre la raccolta ci parla di Napoli, delle sue zone degradate, dei piccoli camorristi e spacciatori. E di una insolita cinica e fredda vendetta, da parte di chi non ti saresti mai aspettato. La violenza passa di mano in mano, si materializza perfino in un assassinio a sangue freddo che poi viene camuffato da incidente. I protagonisti sono degli adolescenti. Sembra che non si possa guarire da questa voglia di uccidere, che sia un testimone da passare in un immaginaria staffetta criminale. O no? Quale può essere la prospettiva per un quindicenne delle banlieu di casa nostra?

La voglia di ribellarsi a un sopruso continuo credo sia insita naturalmente in chi è costretto a subire una violenza difficile da descrivere e che tanto si insinua nella vita quotidianadi molti. Il degrado di cui parlo è frutto di una politica colpevole che ha abbandonato a se stessi alcuni strati della popolazione già colpiti da disoccupazione e povertà, lasciandoli in balia della criminalità organizzata. La risposta non può che essere politica: è l’impegno a dare una prospettiva a quel quindicenne che viene cresciuto nell’illegalità e nella sopraffazione. Istruzione, lavoro, presenza dello Stato sul territorio dovrebbero essere la norma, non l’eccezione. Nel racconto l’unico adulto che si accorge di quanto è successo tenta una rieducazione cinica tesa a sventare la violenza: si uccide un criminale, ne arriva un altro. La singola violenza è inutile. La resistenza di tutti è necessaria.


8. Ci vuol parlare in anteprima del suo ultimo lavoro "L’iguana non vuole", di come nasce e di quali sono le differenze di approccio e l’evoluzione rispetto a "Dai un bacio a chi vuoi tu", che ricordiamo è il libro vincitore del Premio Calvino 2007?

Prima di arrivare a "L’iguana non vuole" ho sentito il bisogno di scrivere un altro libro di racconti, che fosse più personale e legato ancora alla città di Napoli che stavo lasciando per andare a Torino. Dopo "Napoli ore 11", ho cominciato a riflettere su un possibile romanzo e a tracciarne la trama. Mentre lo facevo però, la mia esperienza come insegnante di sostegno mi ha portato a scontrarmi con una realtà del tutto nuova, quella dei disabili nella scuola, un mondo poco conosciuto e che stava attraversando una crisi che rispecchiava in pieno quella del Paese. Ho dovuto lasciar perdere tutto il resto: raccontare la storia di Emma che si scontra contro l’ignoranza, la cattiveria e l’instabilità della nuova Italia, e quella di Andrea che costruisce la sua iguana di cartapesta, che vive nel suo mondo incomprensibile e spaventoso, mi è sembrato importante. È stato più difficile e doloroso di ogni racconto abbia mai scritto. Ora so che ne valeva la pena.

© Intervista realizzata da Stefano di Stasio il 30 Dicembre 2011 e 2 Gennaio 2012. Pubblicata su Parole e Fotografie il 2 Gennaio 2012


SCHEDA DEL LIBRO
Libro vincitore del Premio Calvino 2007

Titolo: Dai un bacio a chi vuoi tu
Autore: Giusi Marchetta
Editore: Terre Di Mezzo
Data di Pubblicazione: Marzo 2008
Collana: Narrativa
ISBN: 9788861890336
Pagine: 173
Formato - Prezzo: Brossura - 7,00 Euro