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martedì 30 maggio 2017

RèG 20.  PAPAVERI  ROSSI

testo © 2017 Stefano di Stasio, foto © 2017 Stefano di Stasio


Mi chiamo Udo Svengborg e da mio nonno Erik ho ereditato il dono della premonizione. Mio nonno credeva ancora nei vecchi Dei e sul comodino teneva un’immagine votiva di Thor, raffigurato mentre uccide un drago a martellate. Lui mi diceva che nella nostra famiglia c’è sempre stato qualcuno che sapeva leggere il futuro tramite l’osservazione attenta della natura, dal verso degli animali selvatici oppure da un volo di uccelli o dalla forma cangiante del fuoco. La nostra famiglia è molto antica, veniamo dalla Scandinavia. Anche mia madre, che si chiama Giovanna ed è nata a Maddaloni, vicino Caserta, tiene sul comodino una figurina votiva, da quando mio padre Frederik è morto di infarto, tanti anni fa. L’immaginetta raffigura San Michele Arcangelo che uccide un drago con la lancia. Quando si dice le coincidenze! Beh, non c’è dubbio, senza il destino favorevole, io non sarei nato neppure. Mio padre Erik quando era un ragazzo, conobbe mia madre mentre era in vacanza in Italia, lei vendeva la frutta per strada sul camioncino, assieme al fratello. Si piacquero. La mise incinta e se la sposò, e poi nacqui io. Per partorire mio padre tornò in Scandinavia, da mia nonna Inge a Göteborg, in Svezia nella contea di Västra Götaland, la “Terra degli Dei”.  Mi diedero il nome Udo, a mio padre piaceva un cantante tedesco che si chiama così. Che cazzo di nome, però! Mio padre Frederik Svengborg era pescatore di merluzzi, aringhe e saraghi. Con la sua barca di legno e un vecchio motore diesel, ha percorso durante tutta la sua vita i fiordi della costa meridionale della Norvegia. Con quella, prima di conoscere mia madre in Italia, ha percorso molti dei fiordi aperti sulle coste meridionali della Norvegia, da Bergen a Bodø. Era capace, d’estate, di partire da Göteborg  e di stare via in mare per due settimane di fila, mio padre. D’estate ci portava con tutta la famiglia, io, mia madre e i miei due fratelli, alle isole Lofoten per la pesca del merluzzo artico, la Lofotfisket.
Noi altri avevamo una hytte, una casetta, là sul fiordo di Røsk. Mio padre il merluzzo lo chiamava torsk e diceva che la nostra famiglia l’andava a pescare da cinquecento anni e forse anche di più. Diceva che il mare era pieno zeppo di merluzzi che venivano a riprodursi alle isole Lofoten dopo aver svernato nelle acque gelide del mare di Barentz. Era uno spasso per noi bambini andare al porto e chiedere il permesso ai pescatori di tagliare le lingue dei grossi merluzzi, ce le rivendevamo alla signora Annika del ristorante nel porto che le faceva fritte per i suoi clienti e i turisti, le lingue fritte di torsk erano una specialità locale. D’estate la sera, in giugno, c’erano solo 4 ore di oscurità e poi il sole risaliva lentamente sulla linea dell’orizzonte. Dopo cena mio padre continuava a affumicare il merluzzo, e io con i miei fratelli giocavamo sulle rive dei fiordi o andavamo a pescare con le barche di legno. Inventavamo delle storie. Fu così che mi accorsi di avere il dono della premonizione, raccontando quello che mi passava in mente fra i riflessi dorati del sole di mezzanotte, prossimo alla linea di confine fra cielo e terra. D’altra parte le isole Lofoten ispirano la fantasia, il nome Lofoten significa la zampa della lince, la disposizione delle isole nel mare grigio e potente ricordarono questo animale ai nostri antenati. Successe che mio fratello Markus, uscì di sera in barca, aveva una lanterna per attirare i pesci. Lui aveva quindici anni, io undici. Preferivo rimanere con mia sorella Linda la sera, a raccontarci le storie attorno al fuoco, e lo lasciammo andare da solo. Stavo raccontando una storia che mi aveva narrato mio nonno, su una nuvola che non sapeva far piovere e si disperava, poveretta, cercando di imparare a  piangere, finché Odino le disse che solo l’amore l’avrebbe guarita. E così fu. La nuvola si invaghì di un cirro, un bel cirro con tanti riccioli che al tramonto si illuminavano di viola e grigio, nelle notti d’estate. Poi il cirro fu rapito dal vento e la nuvola ne ebbe tanto dolore che cominciò a piangere a dirotto per la perdita dell’amato. Mia sorella Linda mi ascoltava con attenzione e alla fine si intristì anche lei, non era una storia allegra, io cercavo di consolarla. Poi, nel fuoco, vidi per la prima volta quello che stava succedendo a Markus. Lo vidi distintamente come se fosse lì accanto a noi, le lame di fuoco mi portarono nel fiordo a largo dove stava in quel momento mio fratello. E vidi. Vidi la lanterna che si capovolgeva e il cherosene che si riversava nella barca avvolgendola nelle fiamme. Vidi Markus che cercava di spegnere l’incendio, ma era avvinghiato nella rete che si era portato dietro. Ebbi un sobbalzo e avvertii mio padre. Mio padre corse alla sua barca a motore e si allontanò in fretta ripercorrendo il fiordo. Fece appena in tempo, la barchetta di Markus aveva appena preso fuoco, mio padre riuscì a spegnere l’incendio con il suo idrante, quello che usa per pulire il ponte della sua imbarcazione. Da allora divenni popolare fra i ragazzi di Västra Götaland, venivano da me per sapere le cose più strane, ma soprattutto per sapere delle ragazze che conoscevano nei loro viaggi. Si rivolgevano a me, quando le fidanzate li lasciavano per qualcun altro, e loro soffrivano pene d’amore per sapere se il destino avrebbe chiesto loro conto. Io li accontentavo e iniziai in questo modo a prestare la mia voce per dare alito di vita ad oscure premonizioni, andando a pescare nella parte più malvagia della mia anima tormentata. Una volta venne un mio amico Sven, detto costola rotta, perché si era fratturato una costola due volte. Era umiliato, la sua ragazza gli aveva dato un appuntamento nel bosco di betulle vicino a una cascata e si era fatta trovare a scopare con un altro, e mentre lui si avvicinava, aveva cominciato a gemere forte di piacere adulando l’asta dura del suo nuovo partner. Tutti lo sapevano che Sven costola rotta ce l’aveva piccolo e a quella troia non le bastava evidentemente. Ma Sven aveva buon cuore, e allora l’ira del vento volò fino all’anima mia e cominciai a parlare sommessamente: “Vedo nel cielo grandi corvi che volteggiano in circolo, percorrendo orbite sempre più strette. E sulla terra la ragazza che ti ha abbandonato. E vedo lei sdraiata con la schiena a terra e incatenata, nuda, e le formiche, sì le formiche, un milione di formiche che percorrono affamate i suoi orifizi, anale e vaginale, e si insinuano negli occhi per abbeverarsi dei suoi umori. E poi i corvi si poggiano ai piedi della ragazza e cominciano a beccare incuriositi le formiche. Quindi si avvicinano al volto di lei, che è ormai nero perché si è ricoperto dalla miriade di formiche. E gli occhi di lei, sì, i suoi occhi… e i corvi che si affilano il becco su pietre lucenti e poi si avvicinano a lei e le cavano gli occhi con una sola beccata. E attorno alla ragazza che urla la sua disperazione, scende la tenebra, nera, spessa come la pece. Questo io vedo.” Sven prima si consolò, poi si dispiacque, anche se era una troia, l’aveva voluta bene. Era un bravo ragazzo Sven, davvero. Anche Jan, che è più anziano e lavora alla falegnameria, era stato lasciato da una donna, una donna perversa e laida, tutti la conoscono, e tutti la evitano. Ma Jan ha la testa dura, e tutti lo sanno. Aveva iniziato una relazione con lei, la donna piano piano l’aveva spogliato di tutti i suoi beni. Jan aveva cominciato a bere, per consolarsi della sua rovina e la donna non l’aveva più voluto vedere, si era messa con l’aiutante della guardia costiera, che gliele aveva suonate a Jan, suonate di santa ragione. Anche per Jan, fui percorso dal vento divino e cominciai a lamentarmi, sommessamente, e a emettere gemiti come di un cane ferito, finché uscì dalla mia gola un filo di voce che suonò così:: “Vedo nell’acqua del torrente che scende dalla montagna bucata, una pioggia, pioggia rossa, una moltitudine sterminata di gocce di sangue e ogni goccia che racconta una storia di come la donna che così ti ha ridotto, soffrirà mille e più di mille pene, prima di morire. E vedo un milione di vermi rossi e neri che le divorano la lingua e il clitoride, e di come si intrecciano tessendo la tana nella sua vagina e nel suo intestino, e di come là, in queste due cavità del suo corpo si riproducono ancora di più, e di come invadono tutto il suo corpo. E vedo che la donna urla, e urla ancora, ma nessuno la ascolta, e vedo
solo la civetta che ne ha pietà e che le risponde con un acuto verso intermittente, appollaiata sopra un ramo nelle tenebre illuminate dalla luna, in fondo al bosco. Questo io vedo…”. Eh sì, così andavano le cose, quando eravamo giovani a Götaland. Quando ebbi 16 anni, mio padre Frederik si stufò di uscire a pesca tutti i santi giorni e decise di mettersi nel commercio del baccalà. Adesso gli altri pescavano ed essiccavano il torsk, lui curava l’amministrazione della cooperativa di pescatori. E venne il giorno che mio padre decise di mettersi in proprio e di lasciare la Norvegia per trasferirsi a Roma, aprendo la sua ditta import-export di prodotti del mare sul litorale laziale vicino a Civitavecchia.
Ho finito le scuole a Roma, mi diplomai perito agrario. Da allora ho lavorato nella ditta di mio padre finché è morto. Poi ho preso la mia strada, percorrendo le strade del mondo, un po’ per gioco un po’ per conoscere l’animo dell’uomo a diverse latitudini. Sono stato in Sud America. Era il periodo della dittatura in Cile. Vedevo le madri dei desaparecidos che manifestavano il loro dolore a Santiago. Osservavo le righe che le lacrime avevano scavato sui loro volti, le foto che tenevano in mano, come i santini che avevo visto sul comodino di mia nonna quando ero ragazzo. Sentivo i racconti dei bandidos, come li chiamavano i giornali di regime, lassù sulle montagne della cordillera. Mi piacevano i  loro nomi, che cosa c’è di più bello di “sendero luminoso”, il nome del gruppo di guerrilleri maoisti? Mi erano sempre piaciute le lingue e, fra le altre, avevo cominciato a studiare il cinese. Avevo imparato che “ming” significa “uomo illuminato”, e che il carattere cinese che lo rappresenta è il sincretismo dei due caratteri che rappresentano il sole e la luna. La luce di giorno e di notte. Era il mio mondo, quello che parla con il verso degli animali, con i disegni delle nuvole e il suono delle acque. Lo stesso mondo. La stessa battaglia per difenderlo.
Oggi è il primo maggio, e io mi godo la mia veneranda età di 75 anni, facendomi una passeggiata in campagna alla periferia di Ostia, sulla stessa vespa che acquistai 50 anni fa e che mia madre, che ha ormai quasi cento anni, mi ha conservato nella rimessa della nostra casa italiana in tutti questi anni nei quali io sono stato in giro per il mondo a vagabondare. Sono passato sulla striscia di asfalto che taglia  i campi di grano a destra e la pineta a sinistra, la strada provinciale 69. Il sole già picchia duro qua in Italia il primo maggio, non siamo in Norvegia o in Svezia. L’occhio si perde fra il verde del grano non ancora maturo e i poggi che si stagliano al basso orizzonte declinati, talvolta, con filari di alberi di noce.
Ho gli occhiali da sole, la luce diretta del sole mi ferisce gli occhi, ho la pelle chiara, io Udo Svengborg. All’improvviso, nel verde del grano intravedo qualcosa. Non riesco bene a vedere, ma posso pazientare, la SP 69, sale il pendio in quella direzione, mi sto avvicinando con la mia vespa.
Ora vedo. Vedo una moltitudine di macchie rosse che fanno capolino fra il verde, sono i papaveri, o rosolacci, ma papaveri e meglio, mi piace di più questa parola in italiano. Mi ricorda mio padre Frederik, papà vero. Li osservo meglio, questa folla di papaveri rossi mi provoca grande gioia nel cuore. Comincio a canticchiare e proseguo la mia corsa in vespa. “forte il pugno che si alzerà…” Mi dà fastidio il casco, mi colano gocce di sudore salmastro sulle sopracciglia, qualcuna fino agli angoli della bocca. Me lo tolgo. Il vento mi viene sulla faccia, è fresco, nonostante la potenza del sole. Vedo, ancora e ancora, dopo aver valicato la collina, distese di papaveri fra l’erba e il grano piegato dal vento lieve. Rossi, rosso porpora, come le labbra frementi di una donna umida di passione.
“Forte il pugno che si alzerà, in ogni paese in ogni città…”
Proseguo sulla SS 69 fra i voli di rondini che gioiscono del sole, con garrulo canto e si piegano in volo, fino a lambire la terra nel fango che è ai fianchi del canale di irrigazione. Mi avvicino ad una pietra bianca, una di quelle che si usano per delimitare i campi. È sommersa fra il rosso purpureo dei papaveri e il lilla chiaro dei fiori di cicoria selvatica. Mi avvicino, per godere di questo spettacolo della natura. Finalmente, io vedo. I petali dei papaveri, sembrano di carne, sembrano delle dita, le dita di una mano. Quattro dita sono allineate, il dito opponente, il pollice è ripiegato con il polpastrello in orizzontale.
Sono pugni chiusi.

Questo io Udo Svengborg vedo oggi primo maggio. E vedo anche, guardando addietro ai tempi della mia infanzia, forse settanta anni fa, forse mille anni fa, laggiù sui fiordi della Scandinavia che serrano il mare grigio e potente, che i papaveri rossi saranno falciati, tutti assieme, senza alcuna pietà. E vedo sangue, molto sangue, e i petali straziati dei papaveri sparsi sulla terra. E vedo l’inverno, lungo, freddo, con tanta nebbia d’ovatta e tanta neve gelata. E poi, ancora, che viene la stagione della primavera, e che i campi esplodono tutta l’energia che la terra ha accumulato nella lunga notte. E che vengono nuovi papaveri, rossi, ancora più rossi, come il sangue dei loro compagni sterminati durante la precedente stagione. E se c’è una cosa che io vedo abbracciando la mia storia millenaria e il mio vagare sulle piccole navi, a contatto con cento e più di cento popoli sparsi nei villaggi bagnati dalle acque dei fiumi o del mare, è che l’uomo ingordo cerca sempre di opprimere, per sete di potenza e fame di denaro, altri uomini. E che questo scempio viene celebrato come la regola, lo scempio è la regola, sì, lo vedo distintamente, e sento che monta, come vento di tempesta sul mare, sì monta la collera degli Dei. E vedo che gli uomini ingordi accumuleranno averi e ricchezze per diverso tempo, molto tempo. E vedo che nel mezzo di questa stagione di empi e di sangue innocente, qualcosa succede. Sì, vedo qualcuno che viene dal Nord. Sono uomini nelle loro armature, che portano spade e lance e scudi che luccicano al sole. E marciano a piedi e a cavallo. Sono uomini guerrieri, quaranta legioni di Arcangeli fatte ciascuna di quaranta volte quaranta eroi senza macchia e senza paura. Sono uomini semplici e feroci, avvezzi alla guerra, e determinati a liberare per sempre gli altri uomini, di ogni colore di pelle, che sono stati ridotti in catene, di ogni paese e di ogni città. E allora l’uomo ingordo vedrà, oh, sì! Come vedrà e come sentirà quanto male ha causato suggendo il sangue dei suoi fratelli. E anche vedrà, e sarà forse l’ultima cosa che vedrà, quanto è affilata e pesante l’ira della giustizia, come l’ascia e il martello. Sì, ascia e martello, i due messaggeri della collera degli Dei, caleranno su tutti gli uomini ingordi. Questo io vedo.”

testo © 2017 Stefano di Stasio


foto © 2017 Stefano di Stasio