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domenica 19 giugno 2016

RèG 12.  CAPPOTTO a 5 STELLE!


Chiara, Virginia e Paolo cittadini candidati sindaco a Torino, Roma e Carbonia, hanno schiacciato i concorrenti con targa PD. Il M5s vince 19 ballottaggi su 20. Viene da pensare a quanto scriveva il maestro Sun Tsu 2500 anni or sono circa, nella sua "L'arte della guerra" (capitolo 4, capo 18):

Un'armata vittoriosa opposta a una sconfitta è come il peso di una libbra posta su un piatto della bilancia contro un singolo chicco posto sull'altro piatto.

Oggi, 20 Giugno ore 3:30 circa, cambia la storia del nostro paese. Schiacciando e scacciando sicofanti e faccendieri del PD in tre città, in particolare a Roma la capitale politica e Torino la ex-capitale dell'industria automobilistica nonché la porta di Francia, il M5s mette un punto fermo al losco e tracotante corso italiano a targa massoneria, berlusconi e renzi.

Una sola critica ai nuovi sindaci M5s: nessun prigioniero PD, questa è la mia raccomandazione.
Così come fu un errore nell'immediato dopoguerra il condono per tutti i fascisti e i loro crimini commessi contro la popolazione i partigiani e le staffette partigiane, quasi sempre giovani ragazze, allo stesso modo qui e ora, nessun condono per il PD! 

Per una volta, faccio mia con una parafrasi, la politica spietata e sanguinaria dei conquistadores in sud-America e degli yankee in nord-America: L'unico PD buono è il PD che si scioglie
Traditori, quelli del PD, di un partito di traditori, quello del PCI-PDS-PD. Traditori dell'eredità rivoluzionaria dell'Internazionale Socialista, né più né meno di come Stalin tradì Lenin, morto dopo 4 anni dopo la rivoluzione di Ottobre, e sostituì, Stalin, l'inno dell'Internazionale come inno dell'Unione Sovietica, con uno "nazionale" copiato da quello della cavalleria dell'Armata Rossa dei Lavoratori e dei Contadini (in russoРабоче-Крестьянская Красная Армия), Armata Rossa che fu istituita da  Lev Trockij nel 1922 attraverso il Consiglio dei Commissari del Popolo Sovietico.

Il PCI, nel 1948, preferì la strada della Realpolitik, dopo il vile attentato a Togliatti del 14 luglio, invitando i Comunisti, come mio nonno, eroi della Resistenza, a deporre le armi. 
Io vi esorto, compagni cittadini del M5s, non abbassate la guardia! Ricordate Napolitano fra gli iscritti al PCI durante il secondo conflitto oppure negli anni immediatamente successivi al 1945?
La risposta è NO, Giorgio Napolitano non fu compagno di partito nel 1943 di mio nonno Stefano, falegname, antifascista e quinta elementare, autodidatta circa le sue idee politiche e la sua convinta adesione alle idee di Proudon, Marx e Lenin. 

Guardate cosa riporta Wikipedia nella biografia di Giorgio Napolitano:

...Dal 1938 al 1941 studia al Liceo Classico Umberto I di Napoli, dove frequenta quarta e quinta ginnasio per poi saltare alla seconda liceo (erano gli anni della guerra). Nel dicembre successivo si trasferisce con la famiglia a Padova, e lì si diploma presso il liceo Tito Livio.[4] Nel 1942 si iscrive alla facoltà di giurisprudenza dell'Università Federico II di Napoli.
Durante quegli anni fa parte del gruppo universitario fascista (GUF), collaborando con il settimanale IX Maggio dove tiene una rubrica di critica teatrale...

Napolitano entrò nel PCI solo a occupazione nazi-fascista finita, nel 1945, fu eletto deputato del PCI nel 1953 e divenne ben presto amico di Bettino Craxi. Per la sua concezione revisionista si scontrò molte volte con Enrico Berlinguer, in rete trovate la lettera degli anni 70 a cui ha fatto riferimento più volte Eugenio Scalfari nei suoi scritti e nelle sue interviste televisive di quegli anni.

Ricordatevi sempre di Simon Bolivar: "PERDURA LO QUE UN PUEBLO DEFIENDE!". Fidel ha imparato presto questa lezione e i suoi concittadini e campesinos lo hanno scritto sui muri di L'Avana, dove campeggia, e sempre figurerà, il ritratto di Ernesto Guevara. 

Come ci insegna il maestro Tucidide, il primo storico che abbia lasciato cronache scritte, nella "Guerra del Peloponneso": ...io vorrei che la mia storia potesse risultare utile a quanti vorranno indagare la chiara e futura realtà ...perché, ciò che un giorno è accaduto, domani potrà pure accadere, secondo l'umana vicenda, in maniera uguale o molto simile...

Godiamoci la festa, cittadini M5s, ma, vi prego, conservate la voce rotta di emozione e pulita di Virginia, Chiara e Paolo. Le centinaia di migliaia di voti che oggi avete ricevuto, sono il martello più implacabile sulla tracotanza di Renzi e del suo entourage. La falce però, amici, tenetela sempre a portata di mano e, ogni tanto, fatela affilare, farà meglio il suo lavoro.

® © 2016 Stefano di Stasio. La riproduzione in tutto o in parte di quest'articolo, senza il consenso scritto dell'autore, sarà perseguita a termini di legge.

PS. Quando sentite, e la sentirete per settimane, la giaculatoria che gli ordini di scuderia hanno ordinato agli araldi PD, ovvero che, secondo loro, nel M5s sono confluiti i voti dalla destra, allora sfoderate la vostra più grassa risata! Nei festeggiamenti M5s si sta cantando "Bella ciao" NON "Giovinezza"!

domenica 12 giugno 2016

RèG 11. Kanelbulle, il messaggero di Odino


testo e foto di © 2016 Stefano di Stasio; LUND, Dicembre 2012

In bicicletta nella tormenta. Come riuscivano a non cadere? A terra la neve stava ghiacciando. Osservavo meravigliato quegli studenti che andavano in bici mentre fioccava. Mi coprii il capo con il cappuccio della giacca per ripararmi dal freddo. Era l’inizio di dicembre ma già in Svezia la temperatura era scesa a meno venti gradi Celsius. Avevo accolto l’invito della mia amica Yvonne che stava organizzando una conferenza. Ero andato per darle una mano. Mi aveva colpito il salone degli arrivi dell’aeroporto di Kopenhagen-Karlstrup. In alto c’era un enorme orologio. A destra la biglietteria a sinistra l’ufficio di cambio. Una scala e già eri sul binario per prendere il treno per la Svezia. Un tunnel sotto il braccio di mare che separava la Sjælland, l’isola di Kopenhagen, dalla penisola scandinava. Un tunnel e un ponte avevano definitivamente relegato nel settore dei miei ricordi di gioventù i traghetti che c’erano trenta anni fa. Yvonne era venuta a prendermi alla prima fermata del treno in terra Svedese. Appena sceso dal treno mi ero reso conto che camminare sarebbe stata una sfida. A ogni passo, a ogni minimo movimento, rischiavo di scivolare su uno strato di ghiaccio. Era notte e i fiocchi di neve venivano giù fitti e grossi. Diffondevano nell’aria secca la luce gialla dei lampioni rischiarando il piazzale di sosta della stazione. Il tratto in auto mi sembrò breve. Ogni parola scambiata con la mia amica pareva ovattata. Arrivammo a Lund. Ci accolse il fumo della centrale termica. Dopo un brindisi di benvenuto mi congedai da lei.
In albergo non si vedeva anima viva. Era già tardi. Presi la chiave in portineria e raggiunsi la mia camera. La notte passò lentamente. Dalla spaziosa vetrata posizionata di fronte al mio letto attesi la luce del giorno. Tardò a arrivare. Era l’inverno del Nord. Una luce d’emergenza e un bip-bip distolsero la mia attenzione dalla linea dell’orizzonte. Era lo spalaneve che aveva ripreso a lavorare. Mi vestii in  fretta e raggiunsi la sala della colazione. Sulla porta senza maniglia c’era un cartello che diceva “Per aprire mostrare la chiave dell’hotel”. Pensai a qualche stregoneria tecnologica dell’ ultim’ora. Estrassi dalla tasca della giacca la chiave con la sua targa di bronzo pesante e cominciai a sbandierarla davanti all’ingresso. Però era strano, non vedevo nessuna telecamera. Continuai così per qualche minuto. Niente, la porta non si apriva. Nel tunnel del centro commerciale attiguo all’hotel vidi da lontano avanzare due uomini. Erano vestiti in tuta di lavoro. Intirizziti dal freddo venivano a prendere un caffè. Mi feci da parte. Uno di loro, senza curarsi minimamente del cartello sulla porta, si accostò al lato sinistro vicino ai cardini e premette qualcosa. Mi sentii un incapace. Come ebbi modo di verificare nei giorni seguenti, tutte le porte di quella regione della Svezia erano equipaggiate di una grossa tavoletta metallica che funzionava da apri porta automatico. Era una soluzione intelligente. Così anche se avevi le mani occupate, la porta si apriva da sola e potevi entrare senza lasciare il tuo bagaglio.
Dopo la colazione decisi di fare quattro passi. Era domenica. Raggiunsi in autobus il centro storico e da lì la cattedrale. Era dell’anno Mille. All’interno c’era un grande orologio tutto fatto di legno. Fui colpito dal fatto che alcuni ragazzi distribuissero tazze di tè e caffè all’interno della chiesa. Mentre percorrevo la navata destra incrociai degli individui vestiti in abiti talari. Erano giovanissimi. Poi notai una cosa strana. C’era una donna vestita coi paramenti sacri. Che strano! Pensai che fosse una religiosa di qualche ordine particolare. Ancora una volta, mi sbagliavo. Erano le undici del mattino e cominciò la funzione religiosa. La donna salì sull’altare e iniziò a dir messa. In Svezia c’erano anche le sacerdotesse. Mi sembrò giusto. Pari opportunità. La celebrante lesse la liturgia e si soffermò sulla lettura di un testo sacro. Poi si interruppe. Che cosa aspettava? All’improvviso da un pulpito attaccato a metà della navata di sinistra si udì una giovane voce maschile. Era uno dei sacerdoti che avevo notato poco prima che spiegava l’omelia. Tutti i fedeli si girarono sulla loro sinistra per osservarlo meglio. Non capivo una parola di Svedese, ma dal tono si intuiva che il giovane prelato stava severamente arringando i convenuti sul messaggio evangelico. Si fermava, rimproverava, spiegava. Quando l’omelia fu finita, decisi di uscire anche se la cerimonia stava continuando. Nel parco di fianco alla cattedrale, mi divertii a camminare sullo strato soffice di neve. Scattai qualche foto alle statue che rappresentavano eroi nazionali. Poi su un mucchio di carbone e torba notai un gruppo di corvi. Sembravano interessarsi a me. Mi osservavano e poi comunicavano fra di loro. Chissà che cosa avevano da dirsi.
C’era un museo lì vicino. Entrai. La signorina all’ingresso mi illustrò la tariffa. Faceva la pubblicità di due libri sulle attività archeologiche condotte in un sito non lontano, situato in quella regione della Svezia meridionale, che si chiamava Uppåkra. I testi erano redatti dai professori che avevano curato il recupero dei reperti e stampati dall’editore dell’università. Erano in Inglese. Li acquistai cercando di tirare sul prezzo, ma fu inutile. Uno era dedicato alle monete che erano state rinvenute nel corso di vari scavi. Si intitolava Treasures in Skåneland. E così venni a sapere che quella parte della Svezia era stata a lungo sotto la dominazione dei re di Danimarca e che ogni re cercava di battere la sua moneta. Ma non avevano argento e oro a sufficienza e, per questo motivo, alla fine coniarono monete di rame che, tuttavia, non durarono a lungo. Era anche simpatico il fatto che, come in una lite di famiglia, ogni volta che subentrava un nuovo regnante dichiarava fuori corso le monete precedenti e sequestrava tutti i fabbri in grado di coniare monete per essere sicuro che fossero battute solo le sue. L’altro libro era più interessante, Barbaricum. Parlava di reperti archeologici dell’età del ferro. Alcuni di quei reperti erano esposti nella sala a piano terra del museo. Entrai nella sala, mi accolse una ambientazione multimediale dei fatti e dei luoghi. E così mentre il commento sonoro, fatto di vento e eco di grida, diffondeva dall’impianto stereo, un fuoco finto, dietro una parete di vetro, illuminava la stanza con i suoi bagliori palpitanti. Mi misi a osservare le punte di lancia e di ascia e i monili disposti in bell’ordine nelle teche. Nel sito di Uppåkra, nel corso di scavi recenti, erano stati rinvenuti i resti di un rito di festeggiamento sul nemico vinto. Era consuetudine dei popoli del Nord Europa nel quinto secolo, dopo avere ottenuto la vittoria in guerra, di riportare a casa tutto quello che erano riusciti a strappare al nemico vinto. Armi, merce preziosa, abiti, cavalli e prigionieri. Poi in una specie di rito orgiastico tutto questo veniva distrutto dalla popolazione dei villaggi. Così i prigionieri venivano impiccati, i cavalli affogati nei corsi d’acqua, le lance e le asce ridotte in pezzi. Perfino l’oro e l’argento, prima appartenuti agli avversari, venivano gettati nel fiume. Questo rituale venne in seguito definito “trionfo” dagli antichi Romani. Le cronache di Paulus Orosius, uno storico iberico dell’Anno Domini 417, fornivano i particolari crudi di questi riti. Nel mucchi di reperti del trionfo rinvenuti a Uppåkra c’erano delle punte di lancia ritorte e ossa umane. Nella stanza di seguito c’erano alcune bacheche con monili e collane. Molte erano di ambra. Un tempo gli uomini e le donne erano di statura più bassa rispetto a oggi. Così anche i gioielli erano minuti. La lavorazione era però precisa. C’erano motivi a onda, il serpente e l’orso, le rune. Di fronte ai gioielli c’era il cranio di una donna in una teca. Un’esecuzione. Nel cranio c’erano due buchi uno al centro e uno di lato. Gli esperti avevano ricostruito che questa poveretta era stata giustiziata, dopo essere stata immobilizzata in ginocchio, con due colpi di mazza. Uscii dalla sala, avevo bisogno di bere.


Nella caffetteria del museo lì vicino comprai un dolce alla cannella e un caffè. Uscii nel parco. Aveva ripreso a nevicare. Cominciai a mangiare con avidità ma il dolce era veramente grosso e dopo poco non ne ebbi più molta voglia. Mi guardai attorno. Da un muretto un corvo mi osservava attentamente. Lo guardai, mi guardò. Capii che cosa mi stava chiedendo. Staccai un pezzo del dolce di cannella e lo lanciai sulla neve. Il corvo non si scompose. Studiò ancora un po’ le mie intenzioni. Poi, per niente intimorito, volò basso e raccattò il suo pasto. Cominciò a beccare il pezzo di dolce. Continuai a mangiare per inerzia la mia ciambella. Dopo poco il corvo mi guardò di nuovo. Lo riguardai. Scambiammo veloci la sensazione di soddisfazione che condividevamo in quel momento. Lui, come me, era già sazio. Tuttavia a me non andava di sprecare il cibo avanzato. Anche lui era dello stesso avviso. Spezzai in due pezzi ciò che rimaneva nelle mie mani della ciambella. Lanciai verso di lui il primo pezzo. Saltellò sulla neve. Si avvicinò e prese il boccone con il lungo becco. Poi si girò. Si spostò, saltellando a piccoli balzi, verso il muretto. Arrivato nei pressi della base di questo, là dove i mattoni spuntavano dal suolo, affondò il suo capo nella neve. Quando riemerse nel becco non c’era più nulla. Che aveva fatto? Volevo essere sicuro di aver capito bene. Lanciai sulla neve l’ultimo pezzo di dolce. Ancora il corvo si avvicinò. Ancora raccattò il suo boccone. Con un saltello fece un dietro front. Si diresse questa volta verso un segnale stradale che era distante una decina di metri. Raggiunse la base del tubo di sostegno. Di nuovo affondò il capo nella neve fino a scomparire. Di nuovo riemerse senza boccone nel becco. Senza fretta si allontanò anche dal secondo nascondiglio. Tutt’intorno caroselli di fiocchi di neve impazziti nel vento celebravano, come in un rito ancestrale, il trionfo del gelido inverno che sopraggiungeva.

© 2011 Stefano di Stasio. Il plagio sarà perseguito a norma della legge sul diritto d'autore

    foto Stefano di Stasio © 2011 

La vie alternative (in francese) suggerita dal messaggero di Odino, il corvo della Scandinavia, la intuite anche nelle emozioni e nell'entusiasmo a cui fanno riferimento alcuni dei protagonisti della stagione degli hippies, the flower people, e, in particolare, nella narrazione di alcuni di loro, l'uno che disertò l'arruolamento militare, preferendo die Blumen al posto di der Krug, l'altra che descrive la sensazione di libertè total provata dormendo sulla spiaggia e guardando le stelle, e, anche, andando alla toilette dans la campagne.

 https://www.youtube.com/watch?v=-DT4RKWghSA

Con le interviste, le immagini del documentario e la colonna sonora.








martedì 7 giugno 2016

SHEQEL, grani di poesia

Sheqel 01. NOTTE 

di Gianfranco Graziano


 NOTTE 

Il giorno se ne va dietro quel colle
e s'alza il canto tremulo nel nido
fermi gli uccelli e con essi il mondo
quasi volesse contemplare l'infinito

Scure le strade e ombre svolazzanti come spettri
le nuvole bagnate dal debol raggio di una luna
che irradia un calor freddo e tenue
e chi lo avverte sa che porterà fortuna

Le luminarie accese il fumo dei camini
fatto di quercia che riscalda e accende
movendo su e giù l'ambiente che lambisce
che a fissarlo a lungo l'occhio non si pente

In una stanza un bimbo nel giaciglio
sente le voci  ma è il buio la sua paura
si agita e geme vuole la sua mamma
che accorre pronta donandogli sua cura

L'uomo è si stanco dopo il suo travaglio
ma questa notte sembra fatta di sospiri
calma le membra e la mente già s'inebria
alla vision della sua donna che già vuol che lui l'ammiri

Questa è la notte cala all'improvviso
e ad alcuni mette angoscia per altri è bella
ma tutti prima o poi di fuori all'uscio
muti a mirar la luce e il canto di una stella



                              

Copyright 2016 Gianfranco Graziano