Cerca nel blog

domenica 25 dicembre 2011

Mişrātah

Mi chiamo Yussouf Al Kadr, ho 19 anni sono di Banghāzi. Frequento il secondo anno di università, ingegneria meccanica. La mia famiglia prima della rivoluzione di febbraio era benestante. Mio padre è medico, mia madre ostetrica, non hanno mai sopportato Muhamar al-Gaddafi. Dicono che è un sanguinario e che sfrutta il popolo. Mio nonno Amed ripete sempre le parole di suo padre, il defunto Mohamed Al Kadr, che combatté contro l’occupazione Italiana negli anni ’30. Il tiranno di oggi è figlio degli invasori Italiani di ieri. Sul suo letto mio nonno ha un ritratto di Omar Al Mukhtar. Lo chiamavano Asad al-Ṣaḥrā  "Il leone del deserto". Era della tribù beduina dei Minifa. Aveva settanta anni quando fu impiccato davanti a ventimila persone a Sulūq quella mattina del 16 Settembre 1931. Mussolini telegrafò ai giudici quando processarono Omar Al Mukhtar al palazzo littorio di Bengasi. Raccomandò di emettere una "immancabile condanna". Fece arrestare il suo avvocato difensore d’ufficio, il capitano Roberto Lontano. Muhamar al-Gaddafi usa gli aerei per bombardare i civili, la sua gente. Ha imparato dagli Italiani che bombardarono per primi con gli aerei l’oasi di Kufra nel 1930. Usarono armi chimiche, incendiarono i villaggi. E avvelenarono i pozzi.
Finora la mia vita è stata tranquilla. Sono alto, ho la carnagione del colore della sabbia e i capelli neri lisci. I miei occhi sono marroni. Mi piacciono molto le motociclette. Infagottato nella mia kefiah, mi piace sentire l’aria bollente del deserto mentre sfreccio sull’autostrada che da Bengasi porta a Qaminis. Ora quella autostrada è bloccata dalle milizie del colonnello. Ci sparano addosso con le batterie di razzi Grad. Ho deciso di aderire alla rivolta. Con altri compagni ci stiamo preparando. Non ero abituato a frequentare l’adẓuẓk, la marmaglia della città. Anche loro mi guardano con occhi meravigliati. Perché un ricco è passato con loro? Non importa, dobbiamo combattere ora, se Dio vuole. Salperemo stasera con una piccola imbarcazione per aiutare i nostri fratelli di Misurata. Da otto settimane sono sotto assedio. I mercenari di Muhamar al-Gaddafi hanno avvelenato l’acqua e tagliato la luce. Ci sono cecchini dappertutto. Sparano su donne e bambini. Di notte fanno rastrellamenti per le case, ammazzano e mutilano i cadaveri per impressionare la gente. I feriti non riescono ad arrivare in ospedale, perché bombardano anche le ambulanze. Ma Dio è grande. Il porto di Misurata è ancora libero. Entreremo in città passando da quella parte. Ci hanno addestrato in una settimana, alcuni amici ci hanno insegnato a usare le armi. Dio è grande.

Mi chiamo Ali Ben Jalil, ho 18 anni sono di Tripoli. Sono piccolo, ho la pelle caffè e i capelli a piccoli ricci. I miei occhi sono scuri come il colore dell’ Aghrb, lo scorpione della notte. Frequento il primo anno di ingegneria elettronica. Vengo da una famiglia povera, mio padre vende gli ortaggi al mercato aiutato da mia madre. Ho tre fratelli e due sorelle. Appena è scoppiata la rivolta la Guardia Nazionale di Muhamar al-Gaddafi è venuta a prelevare me e i miei colleghi studenti. Ci hanno portati nel deserto ai confini con la Tunisia, nella regione di Gadamis, e ci hanno obbligati ad arruolarci nel corpo che chiamano "i guardiani della rivoluzione". Abbiamo subito un addestramento duro di una settimana, i caporali della milizia erano molto severi. Parecchi di noi sono stati frustati. Ci hanno portato ad assistere a una esecuzione sommaria di alcuni soldati del rais che si erano rifiutati di obbedire agli ordini. Si erano rifiutati di sparare sulla folla in rivolta. Erano tutti con le mani legate dietro la schiena e in ginocchio. Ad uno ad uno sono stati giustiziati con un colpo di pistola alla nuca da un ufficiale della milizia. Ci hanno detto che questa è la fine per i traditori. Hanno sfilato loro gli anfibi dai piedi e ce li hanno consegnati. Dicono che ci serviranno. Dopo l’addestramento ci hanno portati prima a Zliten e poi a Mişrātah, per distruggere "il covo di cani rabbiosi" come dice il Colonnello. Ci hanno detto di sparare sui nostri fratelli, Dio ci perdoni. Per un po’ l’abbiamo fatto. Poi è successa una cosa. Un nostro compagno, Mustafa, ha fatto un prigioniero, ha scoperto un ragazzino con una bottiglia piena di benzina. L’ufficiale gli ha ordinato di sparare. Mustafa, l’ha guardato negli occhi. Lo conosco Mustafa, abbiamo studiato insieme. Ha due fratelli più piccoli della stessa età del suo prigioniero. Non ha obbedito. L’ufficiale ha sparato una raffica a lui e al suo prigioniero. Ho fissato la faccia di Mustafa. Un rivolo di sangue gli usciva dalla bocca, gelata in una espressione di paura. Stava lì per terra, immobile, come se abbracciasse il cadavere del ragazzino. Allora, con l’aiuto di Dio, ho capito chi era il mio nemico. Sono uscito allo scoperto. Mi sono lanciato in una corsa senza prendere fiato verso le posizioni dei rivoltosi, protetto da una nuvola di fumo sollevata dai colpi dell’artiglieria pesante. Urlavo di non sparare e agitavo un fazzoletto. Un cecchino mi ha colpito ala gamba sinistra prima che riuscissi ad arrendermi. Ho strisciato nella polvere dietro alla carcassa di un tank. Mi hanno caricato su un pick-up e mi hanno portato in ospedale. Sono qui su una barella rossa, aspetto che venga un chirurgo. Fisso con lo sguardo i miei anfibi. Sopra ci sono ancora le macchie di sangue di Mustafa, il mio amico. Ma sono vivo, grazie a Dio. Allah è grande. Ho sentito un gemito dietro di me. Su una sedia c’è un ragazzo più o meno della stessa mia età. I lealisti del rais l’hanno colpito a una spalla. Non è un soldato di professione, si vede da come si lamenta, da quello che dice. Gli parlo, mi risponde. Si chiama Yussouf, viene da Bengasi, anche lui studia ingegneria.

 © testo e foto di Stefano di Stasio 2011 / ® Riproduzione riservata 2011

 

martedì 20 dicembre 2011

Intervista a Annamaria Trevale, autrice di “Solitudini”, raccolta di racconti

a cura di Stefano di Stasio


Dalla quarta di copertina:

Dodici storie diverse per raccontare come, in un mondo che ci appare sempre più spesso sovraffollato, sia fin troppo facile ritrovarsi completamente soli, senza alcuna distinzione fra giovani e anziani, fra poveri e ricchi. Solitudini materiali, ma anche morali, di persone all’apparenza ben collocate nella società che li circonda. Solitudini a volte cercate, a volte anche subite e non sempre sconfitte, come malattie sottili, alle quali è assai difficile trovare una terapia, il cui esito del resto rimane spesso incerto.


1. Buongiorno Annamaria, vorrei cominciare questa intervista con le parole che vengono riportate nel suo racconto "Secondo capitolo", lo stesso filo conduttore ripreso nella quarta di copertina:
mi piacerebbe avere la possibilità di rivederti, un giorno o l’altro. Anche solo per parlare delle nostre solitudini, la tua cercata e la mia non voluta ma subìta
Nel suo libro si parla di diversi personaggi e di tutte le età. Di questi solo il personaggio maschile di questo racconto sembra aver scelto deliberatamente di isolarsi dal mondo andando a vivere in una piccola isola. Sembrerebbe che a pochi sia dato il privilegio di una tale scelta e che invece alla maggior parte di noi non resti che subire il destino?

Questo libro è nato dall’idea di raccontare la solitudine come condizione esistenziale che può interessare, nel bene o nel male, tutte le età dell’uomo, perciò si apre con la storia di un’adolescente e si chiude con quella di una persona molto anziana.
Ogni protagonista affronta il problema della solitudine a modo suo, a volte accettandola, a volte lottando per liberarsene, e questa lotta può avere un esito positivo o negativo.
Guido, il protagonista di "Secondo capitolo", è un uomo che dopo alcune traversie, professionali e familiari, si è ritrovato a dover azzerare completamente la propria esistenza per ricominciare da capo: come gli animali che si nascondono a leccarsi le ferite dopo aver perso un combattimento, lui sceglie di andare a vivere in un luogo solitario, dove spera di ritrovare un equilibrio. Ha bisogno della solitudine per iniziare a ricostruire la propria vita.

2. Nel racconto "Figlia unica" che apre la raccolta "Solitudini" si parla del menage familiare di una coppia con una sola figlia. La ragazza, Chiara, è una studentessa modello che cresce svolgendo mille attività e impegnandosi ogni giorno in tante discipline come lo sport, la danza, la musica. Eppure le manca qualcosa ed è una cosa semplice: la compagnia dei genitori assorbiti completamente in un freddo tran tran di lavoro e faccende. L’unica persona sensibile nei confronti di Chiara è stata il nonno che è venuto a mancare. E tuttavia il tarlo che si fa strada nella mente di Chiara e prelude alla tragica fine è il rimpianto di non essere mai riuscita a dire in faccia ai genitori che non è la ragazza brava e diligente "a comando", di non aver mai detto loro di no. Che significa per un ragazzo dire no ai propri genitori e alle loro certezze?

Quando ho scritto quel racconto, i miei figli non erano lontani dall’età della protagonista.
Nell’ambito dei loro amici e compagni di scuola ho potuto conoscere situazioni familiari molto simili a quelle di Chiara, con genitori che spesso sovraccaricavano i figli di attività extrascolastiche, più che altro per evitare che trascorressero troppo tempo a casa da soli in attesa del loro ritorno dal lavoro.
L’idea in sé non sarebbe del tutto sbagliata, ma non tutti i ragazzini sono in grado di reggere certi ritmi: ne ho visti alcuni in preda a vere e proprie crisi di rigetto nei confronti di attività svolte senza convinzione, oppure altri in cui a fare le spese di questo iperattivismo era in definitiva il rendimento scolastico.
Ci sono anche molti genitori che danno per scontato il fatto che il loro figlio debba essere sempre e comunque il più bravo, e se questo non accade nascono grandi incomprensioni. Non sempre un ragazzino è in grado di far capire ai propri genitori quanto si senta inadeguato rispetto alle loro aspettative, se queste risultano eccessive o puntano a fargli fare cose per le quali non prova alcun interesse.

3. In alcuni personaggi della raccolta, come nel racconto "Paura della realtà", la solitudine scaturisce dal terrore di mostrarsi all’altro per quello che si è. Eppure non esistono solo galantuomini e gentildonne. Quale dovrebbe essere il giusto equilibrio fra aprirsi e proteggersi dell’individuo rispetto al proprio ambiente?

La "Paura della realtà" dei due protagonisti nasce dal fatto che oggi viviamo in un mondo molto superficiale, in cui ciò che conta è prima di tutto il nostro aspetto esteriore, spesso anche indipendentemente dai pregi e dai difetti interiori dell’individuo: sappiamo tutti che in molti ambienti si può essere promossi o bocciati al primo sguardo. Francesca e Matteo sono entrambi in conflitto con il loro aspetto esteriore, e questo li rende vulnerabili perché temono di essere giudicati solo per come appaiono e non per come sono realmente, tanto da evitare nuovi incontri. Il fatto di potersi aprire o meno agli altri è un fatto molto soggettivo: c’è chi lo fa per istinto, c’è chi ha difficoltà a concedere la propria fiducia, soprattutto se ha l’impressione di essere giudicato negativamente da coloro che frequenta. Del resto anche essere troppo aperti e disponibili presenta qualche rischio, quando compiamo errori di valutazione e ci confidiamo con la persona sbagliata.

4. In diversi racconti si parla di ingegneri. In uno in particolare, un sessantenne ingegnere, Andrea, costruisce una aspettativa sentimentale sulla figura di una collega di lavoro più giovane. Cerca di schivare il pensiero ossessivo dell’attrazione per la donna evitando di proposito di incontrarla ma poi finisce per cedere e chiede di vederla. A questo punto succede l’imprevisto. Per dirla alla John Milton: La mente in se stessa alberga, e in sé può trasformare / Nel ciel l'inferno e nell'inferno il cielo. Innamorarsi è sempre un rischio, non crede?
Una mia amica, quando ha letto "Solitudini", mi ha bonariamente preso in giro dicendomi che sembro ossessionata dagli ingegneri. In realtà mi sono resa conto troppo tardi di aver attribuito questa qualifica a diversi personaggi, ma questo è dovuto al fatto che la raccolta ha riunito storie scritte in tempi diversi, a distanza di mesi o addirittura di anni, e questo particolare è sfuggito in sede di editing.
Il personaggio di Andrea, in particolare, è vagamente ispirato a una persona reale di mia conoscenza, che ha vissuto un’esperienza simile. Direi che, negli ultimi anni, a quelli che erano i rischi congeniti dell’innamoramento se ne è agginuto un altro, dovuto allo sviluppo dei nuovi rapporti interpersonali che nascono attraverso Internet. Ci sono moltissime persone che intrecciano lunghe corrispondenze grazie alla posta elettronica e che si frequentano nelle chat e nei social network, ma spesso questi rapporti virtuali non riescono a trasferirsi nella realtà, oppure, se questo accade, diventano fonte di grandi delusioni.
Naturalmente esiste anche il rovescio in positivo della medaglia, con i casi felici in cui un incontro reale conferma le affinità che erano emerse nel mondo virtuale, ma nel caso del racconto il protagonista si sente attratto da una donna di cui, in realtà, non sa quasi nulla, perciò ha difficoltà a far coincidere l’immagine virtuale, creata dai suoi bisogni e desideri, con la donna concreta che vorrebbe incontrare.

5. La tematica della immigrazione femminile e dell’assistenza agli anziani è importante nel quadro della famiglia Italiana contemporanea. Lei la presenta nel racconto "La badante" che ha per protagonisti, ancora un ingegnere e una donna Polacca molto più giovane. Qual è la sua opinione sui flussi migratori in Italia, in questo momento di recessione per il nostro paese?

Personalmente non credo che gli immigrati portino via il lavoro agli italiani, come sostengono spesso coloro che sono contrari ad accoglierli, semplicemente perché nella maggior parte dei casi sono venuti a occupare degli spazi rimasti vuoti nel mercato del lavoro: non sono più molti gli italiani disposti a svolgere certe mansioni particolarmente sgradevoli, come la cura di persone anziane non più autosufficienti, per non parlare di mestieri come l’addetto alle pulizie, il raccoglitore di frutta o il manovale. Negli ultimi anni ho purtroppo avuto occasione di frequentare spesso residenze per anziani, e solo una minima parte di coloro che ogni giorno erano impegnati a pulire, nutrire e accudire in tutte le maniere persone prive di autonomia fisica, o peggio ancora psichica, era di nazionalità italiana. La convivenza tra persone appartenenti a etnie differenti è sicuramente fonte di problemi non da poco, ma non siamo certo il primo paese occidentale chiamato ad affrontarli: che piaccia o no, la popolazione dell’Italia sarà sempre più multietnica, e del resto basta muoversi nelle strade delle grandi città per rendersi conto che il processo è ormai irreversibile.

6. Scrive Maria Miceli, una ricercatrice dell’Istituto di Scienze Cognitive e Tecnologie del CNR, nel suo lavoro in Sentirsi soli, che la solitudine è il prezzo necessario da pagare per evitare di smarrire la propria identità. Qual è il suo punto di vista?

Forse questa è un’affermazione un po’ troppo impegnativa, nel senso che non per tutti la solitudine è così importante, però credo che tutti noi abbiamo bisogno di passare almeno una parte del nostro tempo soli con noi stessi per vivere meglio, anche se la dimensione di questo tempo può variare da un individuo all’altro: ci sono persone che si sentono al meglio solo in mezzo al frastuono e alla ressa, e altre il cui ideale supremo sarebbe quello di poter vivere per sempre su un’isola deserta, mentre provano disagio negli ambienti affollati.

7. Nei suoi racconti si parla anche di anziani. Eppure non sono soli, vivono in condomini dove si trova facilmente l’opportunità di scambiare qualche chiacchiera con i vicini. Per una persona ormai fuori dal mondo del lavoro come nel caso della protagonista di "Panchine", Carlotta, che cosa rappresenta poter incontrare gli altri o addirittura, poter mettere a disposizione di uno sconosciuto il libri della biblioteca del marito defunto?

Carlotta è una donna che vive senza problemi la sua vecchiaia, anche se è rimasta da sola dopo la morte del marito: ha comunque una figlia, ha le amiche e le vicine di casa con cui scambiare due chiacchiere sulle panchine del giardinetto comunale che danno il titolo al racconto.
Appunto perché è una persona positiva e socievole, cerca di fare amicizia con un altro anziano, anche se forse un po’ meno socievole, che però attira la sua attenzione perché quando lo vede sulle panchine dei giardini lo trova sempre immerso nella lettura: l’amore per i libri era secondo Carlotaa una delle qualità più importanti del marito scomparso. E sapendo che, abitando come lei nelle case popolari, non deve trattarsi di una persona con grandi disponibilità finanziarie, trova spontaneo offrirgli in prestito i libri del marito che conserva in casa propria.

8. In un altro racconto si parla di un’anziana donna, Marta, che, al contrario di altri anziani, è seguita e accudita costantemente da una delle proprie figlie. Sembra quasi che debba addirittura sudare per essere lasciata in pace e avere il tempo di fare una telefonata. Le persone anziane a volte sono imprevedibili. Dove finisce il bisogno di assistenza e dove comincia quello di tranquillità?
Marta fa parte di quelle persone che non hanno nessuna paura di restare per un po’ di tempo sole con i propri pensieri. Si considera fortunata perché, pur essendo anziana e con qualche problema di salute, ha due figlie che si occupano di lei, ma mentre una delle due limita i suoi interventi al necessario, l’altra sembra provare una particolare gratificazione nell’accudire la madre in unmodo fin troppo assiduo. In fondo tra le due non è tanto la madre anziana ad avere problemi di solitudine, quanto piuttosto la figlia, che dopo il fallimento della propria vita affettiva sembra aver fatto dell’assistenza alla madre il suo principale scopo di vita.
Anche se è importante avere qualcuno che si prenda cura di noi quando siamo anziani e malati, credo che a nessuno faccia piacere sentirsi chiedere in continuazione come sta, cosa desidera, se ha bisogno di qualcosa… Le persone troppo premurose spesso rischiano di diventare asfissianti. 

9. Ci può parlare della sua esperienza di autrice e dei progetti futuri?
Questo temo sia un argomento delicato per tutti gli autori che, come me, non sono riusciti ad andare oltre la pubblicazione con case editrici molto piccole.
Dopo una decina d’anni di esperienze varie, con la pubblicazione di libri personali e la partecipazione a numerose raccolte di racconti con altri scrittori, oltre a collaborazioni a riviste e siti letterari online, mi sento un po’ in una fase di stallo. Ho l’impressione che esistano due mondi letterari abbastanza separati tra loro: da un lato quello dei piccoli e piccolissimi editori, dall’altro quello delle case editrici medio-alte, e temo che sia molto difficile fare il "salto" dal primo al secondo.
Conosco ormai molti autori che si aggirano da decenni nel mondo della microeditoria e dei concorsi letterari, mietendo successi in questo ambito ma senza mai arrivare a farsi conoscere da un pubblico più vasto, perciò al momento non nutro molto entusiasmo nei confronti del futuro: sto scrivendo un romanzo, ma non ho la minima idea di cosa ne farò una volta che l’avrò terminato.
Ho avuto rapporti con diverse case editrici nell’ambito della microeditoria, ma il loro rapporto con l’autore è più o meno sempre lo stesso: con rare eccezioni, si limitano a mettere a disposizione il libro stampato, ma non hanno né i mezzi economici né la disponibilità a occuparsi della sua diffusione, che ricade pressoché totalmente sulle spalle dell’autore.
Il quale poi, nella stragrande maggioranza dei casi, una volta che abbia esaurito i parenti e gli amici disposti ad acquistare la loro copia, se non ha la possibilità di organizzarsi presentazioni qua e là (cosa non certo facile e spesso anche costosa) si ritrova al palo, e spesso più frustrato di come si sentisse prima della pubblicazione.

© Intervista realizzata da Stefano di Stasio il 14 e 18 Dicembre 2011. Pubblicata su Parole e Fotografie
http://www.paroleefotografie.blogspot.com/

SCHEDA DEL LIBRO
Titolo: Solitudini
Autore: Annamaria Trevale
Editore: Prospettiva Editrice
Data di Pubblicazione: Marzo 2008
Collana: I Ridotti Interrete - 3
ISBN: 9788874184743
Pagine: 85
Formato - Prezzo: Brossura - 10,00 Euro

domenica 11 dicembre 2011

Kanelbulle / Brioche alla cannella

In bicicletta nella tormenta. Come riuscivano a non cadere? A terra la neve stava ghiacciando. Osservavo meravigliato quegli studenti che andavano in bici mentre fioccava. Mi coprii il capo con il cappuccio della giacca per ripararmi dal freddo. Era l’inizio di dicembre ma già in Svezia la temperatura era scesa a meno venti gradi Celsius. Avevo accolto l’invito della mia amica Yvonne che stava organizzando una conferenza. Ero andato per darle una mano. Mi aveva colpito il salone degli arrivi dell’aeroporto di Kopenhagen-Karlstrup. In alto c’era un enorme orologio. A destra la biglietteria a sinistra l’ufficio di cambio. Una scala e già eri sul binario per prendere il treno per la Svezia. Un tunnel sotto il braccio di mare che separava la Sjælland, l’isola di Kopenhagen, dalla penisola scandinava. Un tunnel e un ponte avevano definitivamente relegato nel settore dei miei ricordi di gioventù i traghetti che c’erano trenta anni fa. Yvonne era venuta a prendermi alla prima fermata del treno in terra Svedese. Appena sceso dal treno mi ero reso conto che camminare sarebbe stata una sfida. A ogni passo, a ogni minimo movimento, rischiavo di scivolare su uno strato di ghiaccio. Era notte e i fiocchi di neve venivano giù fitti e grossi. Diffondevano nell’aria secca la luce gialla dei lampioni rischiarando il piazzale di sosta della stazione. Il tratto in auto mi sembrò breve. Ogni parola scambiata con la mia amica pareva ovattata. Arrivammo a Lund. Ci accolse il fumo della centrale termica. Dopo un brindisi di benvenuto mi congedai da lei.
In albergo non si vedeva anima viva. Era già tardi. Presi la chiave in portineria e raggiunsi la mia camera. La notte passò lentamente. Dalla spaziosa vetrata posizionata di fronte al mio letto attesi la luce del giorno. Tardò a arrivare. Era l’inverno del Nord. Una luce d’emergenza e un bip-bip distolsero la mia attenzione dalla linea dell’orizzonte. Era lo spalaneve che aveva ripreso a lavorare. Mi vestii in fretta e raggiunsi la sala della colazione. Sulla porta senza maniglia c’era un cartello che diceva "Per aprire mostrare la chiave dell’hotel". Pensai a qualche stregoneria tecnologica dell’ ultim’ora. Estrassi dalla tasca della giacca la chiave con la sua targa di bronzo pesante e cominciai a sbandierarla davanti all’ingresso. Però era strano, non vedevo nessuna telecamera. Continuai così per qualche minuto. Niente, la porta non si apriva. Nel tunnel del centro commerciale attiguo all’hotel vidi da lontano avanzare due uomini. Erano vestiti in tuta di lavoro. Intirizziti dal freddo venivano a prendere un caffè. Mi feci da parte. Uno di loro, senza curarsi minimamente del cartello sulla porta, si accostò al lato sinistro vicino ai cardini e premette qualcosa. Mi sentii un incapace. Come ebbi modo di verificare nei giorni seguenti, tutte le porte di quella regione della Svezia erano equipaggiate di una grossa tavoletta metallica che funzionava da apri porta automatico. Era una soluzione intelligente. Così anche se avevi le mani occupate, la porta si apriva da sola e potevi entrare senza lasciare il tuo bagaglio.
Dopo la colazione decisi di fare quattro passi. Era domenica. Raggiunsi in autobus il centro storico e da lì la cattedrale. Era dell’anno Mille. All’interno c’era un grande orologio tutto fatto di legno. Fui colpito dal fatto che alcuni ragazzi distribuissero tazze di tè e caffè all’interno della chiesa. Mentre percorrevo la navata destra incrociai degli individui vestiti in abiti talari. Erano giovanissimi. Poi notai una cosa strana. C’era una donna vestita coi paramenti sacri. Che strano! Pensai che fosse una religiosa di qualche ordine particolare. Ancora una volta, mi sbagliavo. Erano le undici del mattino e cominciò la funzione religiosa. La donna salì sull’altare e iniziò a dir messa. In Svezia c’erano anche le sacerdotesse. Mi sembrò giusto. Pari opportunità. La celebrante lesse la liturgia e si soffermò sulla lettura di un testo sacro. Poi si interruppe. Che cosa aspettava? All’improvviso da un pulpito attaccato a metà della navata di sinistra si udì una giovane voce maschile. Era uno dei sacerdoti che avevo notato poco prima che spiegava l’omelia. Tutti i fedeli si girarono sulla loro sinistra per osservarlo meglio. Non capivo una parola di Svedese, ma dal tono si intuiva che il giovane prelato stava severamente arringando i convenuti sul messaggio evangelico. Si fermava, rimproverava, spiegava. Quando l’omelia fu finita, decisi di uscire anche se la cerimonia stava continuando. Nel parco di fianco alla cattedrale, mi divertii a camminare sullo strato soffice di neve. Scattai qualche foto alle statue che rappresentavano eroi nazionali. Poi su un mucchio di carbone e torba notai un gruppo di corvi. Sembravano interessarsi a me. Mi osservavano e poi comunicavano fra di loro. Chissà che cosa avevano da dirsi.
C’era un museo lì vicino. Entrai. La signorina all’ingresso mi illustrò la tariffa. Faceva la pubblicità di due libri sulle attività archeologiche condotte in un sito non lontano, situato in quella regione della Svezia meridionale, che si chiamava Uppåkra. I testi erano redatti dai professori che avevano curato il recupero dei reperti e stampati dall’editore dell’università. Erano in Inglese. Li acquistai cercando di tirare sul prezzo, ma fu inutile. Uno era dedicato alle monete che erano state rinvenute nel corso di vari scavi. Si intitolava Treasures in Skåneland. E così venni a sapere che quella parte della Svezia era stata a lungo sotto la dominazione dei re di Danimarca e che ogni re cercava di battere la sua moneta. Ma non avevano argento e oro a sufficienza e, per questo motivo, alla fine coniarono monete di rame che, tuttavia, non durarono a lungo. Era anche simpatico il fatto che, come in una lite di famiglia, ogni volta che subentrava un nuovo regnante dichiarava fuori corso le monete precedenti e sequestrava tutti i fabbri in grado di coniare monete per essere sicuro che fossero battute solo le sue. L’altro libro era più interessante, Barbaricum. Parlava di reperti archeologici dell’età del ferro. Alcuni di quei reperti erano esposti nella sala a piano terra del museo. Entrai nella sala, mi accolse una ambientazione multimediale dei fatti e dei luoghi. E così mentre il commento sonoro, fatto di vento e eco di grida, diffondeva dall’impianto stereo, un fuoco finto, dietro una parete di vetro, illuminava la stanza con i suoi bagliori palpitanti. Mi misi a osservare le punte di lancia e di ascia e i monili disposti in bell’ordine nelle teche. Nel sito di Uppåkra, nel corso di scavi recenti, erano stati rinvenuti i resti di un rito di festeggiamento sul nemico vinto. Era consuetudine dei popoli del Nord Europa nel quinto secolo, dopo avere ottenuto la vittoria in guerra, di riportare a casa tutto quello che erano riusciti a strappare al nemico vinto. Armi, merce preziosa, abiti, cavalli e prigionieri. Poi in una specie di rito orgiastico tutto questo veniva distrutto dalla popolazione dei villaggi. Così i prigionieri venivano impiccati, i cavalli affogati nei corsi d’acqua, le lance e le asce ridotte in pezzi. Perfino l’oro e l’argento, prima appartenuti agli avversari, venivano gettati nel fiume. Questo rituale venne in seguito definito "trionfo" dagli antichi Romani. Le cronache di Paulus Orosius, uno storico iberico dell’Anno Domini 417, fornivano i particolari crudi di questi riti. Nel mucchi di reperti del trionfo rinvenuti a Uppåkra c’erano delle punte di lancia ritorte e ossa umane. Nella stanza di seguito c’erano alcune bacheche con monili e collane. Molte erano di ambra. Un tempo gli uomini e le donne erano di statura più bassa rispetto a oggi. Così anche i gioielli erano minuti. La lavorazione era però precisa. C’erano motivi a onda, il serpente e l’orso, le rune. Di fronte ai gioielli c’era il cranio di una donna in una teca. Un’esecuzione. Nel cranio c’erano due buchi uno al centro e uno di lato. Gli esperti avevano ricostruito che questa poveretta era stata giustiziata, dopo essere stata immobilizzata in ginocchio, con due colpi di mazza. Uscii dalla sala, avevo bisogno di bere.
Nella caffetteria del museo lì vicino comprai un dolce alla cannella e un caffè. Uscii nel parco. Aveva ripreso a nevicare. Cominciai a mangiare con avidità ma il dolce era veramente grosso e dopo poco non ne ebbi più molta voglia. Mi guardai attorno. Da un muretto un corvo mi osservava attentamente. Lo guardai, mi guardò. Capii che cosa mi stava chiedendo. Staccai un pezzo del dolce di cannella e lo lanciai sulla neve. Il corvo non si scompose. Studiò ancora un po’ le mie intenzioni. Poi, per niente intimorito, volò basso e raccattò il suo pasto. Cominciò a beccare il pezzo di dolce. Continuai a mangiare per inerzia la mia ciambella. Dopo poco il corvo mi guardò di nuovo. Lo riguardai. Scambiammo veloci la sensazione di soddisfazione che condividevamo in quel momento. Lui, come me, era già sazio. Tuttavia a me non andava di sprecare il cibo avanzato. Anche lui era dello stesso avviso. Spezzai in due pezzi ciò che rimaneva nelle mie mani della ciambella. Lanciai verso di lui il primo pezzo. Saltellò sulla neve. Si avvicinò e prese il boccone con il lungo becco. Poi si girò. Si spostò, saltellando a piccoli balzi, verso il muretto. Arrivato nei pressi della base di questo, là dove i mattoni spuntavano dal suolo, affondò il suo capo nella neve. Quando riemerse nel becco non c’era più nulla. Che aveva fatto? Volevo essere sicuro di aver capito bene. Lanciai sulla neve l’ultimo pezzo di dolce. Ancora il corvo si avvicinò. Ancora raccattò il suo boccone. Con un saltello fece un dietro front. Si diresse questa volta verso un segnale stradale che era distante una decina di metri. Raggiunse la base del tubo di sostegno. Di nuovo affondò il capo nella neve fino a scomparire. Di nuovo riemerse senza boccone nel becco. Senza fretta si allontanò anche dal secondo nascondiglio. Tutt’intorno caroselli di fiocchi di neve impazziti nel vento celebravano, come in un rito ancestrale, il trionfo del gelido inverno che sopraggiungeva.

Tratto dalla raccolta "Del seme più forte" Racconti per Immagine, Edizioni Lampi di Stampa (2011).

© testo e foto di Stefano di Stasio

L'antologia di 14 racconti e 15 fotografie "Del seme più forte" è reperibile on line su:
http://www.hoepli.it/libro/del-seme-piu--forte/9788848812856.asp
http://www.ibs.it/code/9788848812856/di-stasio-stefano/del-seme-pi-ugrave-forte.html

oppure presso la libreria Spartaco Interno 4 di S. Maria C.V. e la libreria Mondadori di Caserta.

mercoledì 7 dicembre 2011

PAROLA DI SCAMBIO: Ritratti di una cubista


Prosegue la rubrica "Parola di scambio" che riporta in cronaca le impressioni da parte di voi lettori su "Ritratti di una cubista" pubblicato nel post che precede questo.
Una finestra socchiusa sul significato di identità della persona che sembra sfuggire nelle relazioni fra simili. Un inquietante punto interrogativo sui rapporti all’interno del nucleo parentale rispetto a quelli all’esterno di esso, nella società dello sfruttamento e del sesso esibito. Una riflessione, quella che propone "Parola di scambio", che muove dal narrare di un testimone immaginario e che può appartenere a tutti noi. Un racconto sussurrato a voce  roca sulla scia di quel disagio quasi "tattile" che si prova esplorando  pieghe invisibili e dinamiche di mercimonio di una società distratta.
Grazie a Mirko, Veronica e Nina, gli autori delle recensioni riportate in questa edizione, per la sensibilità e la condivisione di questo racconto che viene proposto sempre come spunto di discussione. Chi volesse dire la sua può contattarmi, i numeri della rubrica "Parola di scambio" sono sempre aperti per altre impressioni o commenti ex-post da parte vostra.

Il racconto "Ritratto di una cubista" è in archivio di Parole e Fotografie al link:
http://paroleefotografie.blogspot.com/2011/12/ritratti-di-una-cubista.html


MIRKO GIACCHETTI
Un Picasso in fiamme ti può andare? Happy Feet - Paolo Conte.
Quando ho letto il titolo del racconto di Stefano di Stasio, ho pensato ad una biografia di una pittrice; una donna sommersa dalla marea maschilista di pittori… Sin dalle prime righe mi sono dovuto ricredere. La cubista di cui si parla è un’ "artista" del ballo. La breve biografia orale adottata per raccontarci chi è Melania, non ci permette di conoscere il personaggio. I narratori ci danno un’immagine diametralmente opposta della dancer. I due caratteri - la definizione metafisica dell’anima di Melania- sono costruiti attraverso i ricordi dalla madre e la monetizzazione dall’impresario. I due ritratti non combaciano, eppure il protagonista è uno. Mi chiedo: qualcuno dei due narratori conosce il materiale che, presume, di aver modellato? La madre conosce la figlia? L’impresario conosce l’artista? Direi di no. La madre ci descrive una bambina, l’impresario un bancomat… Il racconto ci obbliga a riflettere su quanto i due conoscano la cubista. Premiamo con la simpatia l’affetto e la tenerezza della madre e biasimiamo l’avidità con cui l’impresario sfrutta la ragazza. Mi chiedo: ma ognuno di noi non è contemporaneamente madre e impresario? Tutti noi, non abbiamo delle immagini di noi stessi e degli altri, dietro a cui scompare la reale essenza del soggetto e su cui riversiamo i nostri sentimenti e i tornaconti? La radice delle illusioni e delle delusioni è nell’equivoco della conoscenza esatta che pretendiamo di avere. Si apre la via dello Zen e della Meraviglia. Lasciare che le cose ci vengano incontro per quello che sono. È impossibile? Per i reclami dobbiamo rivolgerci a Stefano; con i suoi racconti ci obbliga a sfogliare la realtà, a confrontarci con quelle contraddizioni quotidiane che sfuggono ad uno sguardo superficiale. Nei suoi scritti spesso ricerca le radici, la storia da cui nasce l’essenza stessa delle cose che ci assediano. I suoi scritti sono l’invito a cui non si può mai dire di no.


VERONICA DI GIRONIMO
Protagonista del racconto é Melania, una ragazza di provincia timida e insicura, caratterizzata da una bellezza sfacciata facile da vendere. Intorno a lei lo squallido ambiente della provincia, i pomeriggi in parrocchia come unica evasione e la difficoltà di fare amicizia che caratterizza la sua giovane età.
Melania é la protagonista della vicenda, ma non parla mai. Raccontano di lei, con grande enfasi e sicurezza, l'impresario e la madre, descrivendo la ragazza dal loro punto di vista. Per la madre, Melania è timida, incapace di crearsi un futuro, di fare le giuste scelte, ci penserà lei a farla uscire dall'anonimato della provincia e a renderla felice. L'impresario ne parla in modo superficiale, Melania è solo merce da vendere, nulla di più. E nello squallore dei locali notturni, popolati da uomini soli e smaniosi di sesso, si perde l'autenticità della ragazza e il suo desiderio di vivere.
Racconto dai toni forti, a tratti amaro, lascia il lettore come spettatore impotente di una quotidianità molto spesso ignorata. Mi ha colpito molto l'abilità dell'autore nel descrivere i personaggi che ruotano attorno alla protagonista, la loro bassezza d'animo, l'ignoranza, ma soprattutto la modalità con cui ci parla della protagonista, lasciando trapelare il suo disagio e la solitudine.


NINA PENNACCHI 
… In che modo è successo? Quando? Cosa l'ha fatta cambiare così? E soprattutto, è cambiata davvero, Melania? Perché magari la ragazza di cui parla l'impresario, e di cui parla la madre, è la stessa. Forse non è cambiata affatto. Si nascondeva allora; si nasconde anche adesso, in modo molto più profondo, mentre si spoglia per chi non la conoscerà mai…

La recensione completa di Nina è sul sito:
http://www.braviautori.com/ritratti-di-una-cubista.html


Il numero precedente della rubrica "PAROLA DI SCAMBIO: Tumán", una cruda storia d'amore fra due insoliti protagonisti, lo potete trovare qui:
http://paroleefotografie.blogspot.com/2011/10/parola-di-scambio-tuman.html


 


sabato 3 dicembre 2011

Ritratti di una cubista


L’impresario. Ho creato io Melania. Era una ragazza di provincia, parlava sempre troppo, era incontenibile. Aveva sempre la maledetta abitudine di interrompere le mie conversazioni con gli amici che contano. Sta’ zitta una volta tanto, quanto sei oca! Per fortuna hai tutte le carte in regola, e anche il resto. Farò di te una star.

La madre di Melania. A scuola era timida. Le maestre mi parlavano spesso di quella sua difficoltà a rispondere quando veniva interrogata. Le si bloccava la parola in gola. Pronunciava la "s" come una "ch" e la "r" come una "l". Mi ricordo che la portai anche a fare una visita da un famoso specialista che le prescrisse delle sedute di logopedia.

Ma quanto sei sfacciata! Pur di farti riprendere da una telecamera andresti a letto anche con un morto. Aspetta un momento sto parlando con un mio amico. Cercheremo di organizzarti uno spettacolo un po’ particolare. Mi hai detto che ti piace fare la lap dance. Vediamo…

Non ti dico poi con i ragazzi. Era completamente imbambolata. Io le dicevo, Melania ma cosa vuoi che sia! Chiamalo a telefono questo benedetto ragazzo se ti piace così tanto. E invece niente, diventava rossa, poi cominciava a saltellare sul posto e urlava No, non ce la faccio, non ne sarò mai capace. Mi preoccupai, si sa oggi è meglio che le figlie crescano spregiudicate, è duro farsi strada. La portai da uno psicologo. Melania ci andò controvoglia. La faceva parlare, le chiedeva del padre. Dopo qualche seduta, mia figlia mi disse che l’odiava. Un giorno mi buttò in aria tutti i piatti buoni e mi disse: "Che cosa vuoi da me? Sono timida! Lasciami in pace".

Ecco mi sono messo d’accordo con il Puppi. Lui è uno che conta, conosce deputati e vip. Abbiamo organizzato uno spettacolo alla discoteca "L’Étoile". Sei contenta? Ti credo, è l’ambiente più chic della città. Industrialotti, trafficanti. Gente con la grana. Là è facile fare qualche "servizio" e mettersi in tasca, o meglio nelle mutandine, biglietti da cinquecento euro. Che culo che hai! E dire che ci sono tante come te che ci provano per anni a entrare in certi ambienti. Mah! Forse al Puppi sarà piaciuta la tua foto, quella con il capezzolo destro coperto dall’ombra dell’orchidea. O forse gli piace la tua voglia di caffè sulla coscia all’altezza dell’inguine. Che ne so? Puppi è un cocainomane, non sono nemmeno sicuro che ci veda bene, è sempre fatto!

Figuratevi che Melania ha sempre rifiutato di farsi fotografare. Alle feste di compleanno era gentile e scherzosa con tutti, ma appena spuntava una macchina fotografica scappava via e non si poteva ritrovarla più. Mi viene da ridere. Noi abitavamo in campagna a quell’epoca e avevamo una specie di fattoria con gli animali. Beh, una volta andai a riprenderla nel fienile. Era nascosta sotto la paglia e non veniva fuori. Quando poi le mostrai la macchina fotografica aperta con il rullino che prendeva luce e mosche, si decisa a venire via con me. Come rimasero male i cugini!

Allora ci siamo, baby! Ti sei depilata? Bene! Ora devi mostrare tutto il sesso che hai in corpo. Là fuori la gente è calda, ha già bevuto. Non è difficile. Ma devi andarci piano. Muoviti bene e ondeggia il bacino mentre giri attorno al palo. Sono fatti di alcool e di coca. Devi stuzzicarli. All’inizio ti copriranno di fischi. Ti vogliono nuda in fretta. Fregatene! Vai piano e lentamente. Mi raccomando il seno. Non scoprire insieme le tette. Prima una e poi l’altra. Fai finta di volerti proteggere. Questo li manderà in bestia, sono dei pervertiti. Poi lentamente avvicinati al bordo della pedana e lascia che ti infilino le banconote da cento euro negli slip. Non preoccuparti. Un uomo che paga non è un uomo vero. La banconota è una protesi! Quelli che ti danno soldi non te li ritroverai in camerino dopo.

Dopo la prima comunione, il parroco don Lorenzo, mi propose di far partecipare Melania al coro della messa della domenica. Andavamo in una cappellina di campagna dedicata a S. Maria degli Angeli. C’era una maestra di canto, una anziana zitella che si chiamava Leonilde Soprano. Era molto severa. Melania si disperava quando la maestra le rimproverava di non aver ben intonato un attacco nel coro oppure di essersi soffiata il naso. La domenica era sempre nervosa Melania. Salivano sul soppalco della cappellina e cominciavano a cantare. Il soppalco era sopra l’ingresso della chiesa di fronte all’altare. La signora Leonilde distribuiva occhiate severe mentre don Lorenzo alzava gli occhi aspettando con ansia che iniziassero il canto e con timore che lo terminassero completamente. Penso che anche don Lorenzo fosse ossessionato dalla signorina Leonilde.

Sei grande! Vai continua così. Stanno dando di matto. Guarda quello lì, si è messo in ginocchio davanti alla pedana. Vuoi vedere che hai fatto il miracolo? Secondo me non gli veniva duro da tre anni! Povera moglie. Girati, girati, fai vedere le chiappe, così! Cacchio, come sbavano. Lo sapevo, a questi impotenti piacciono le ragazze di provincia. Si ricordano di quando erano giovani e andavano a fare bagordi nelle feste di paese. Con le auto di grossa cilindrata dei genitori. Brutti bastardi! Era facile per voi farle cadere ai vostri piedi. Mica come me, che avevo una vespa e per di più con una ruota anteriore ovale, a furia di prendere fossi.



© testo e foto di Stefano di Stasio