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domenica 23 aprile 2017

LITTLE CHICK HORN racconto
Riprende la serie di PeF "Ribellarsi è giusto" © 2016 Stefano di Stasio.
In questo racconto, il numero 20 della rubrica, l'alchimia delle parole, darà voce a uno dei polli degli allevamenti a batteria, una di quelle pratiche di tortura degli animali da parte dell'uomo che fanno riflettere. maggiori notizie le trovate al link:

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RèG 19. LITTLE CHICK HORN

testo di © 2016 Stefano di Stasio.

SETTIMANE 1 e 2
Che vita di merda! Mi tocca beccare una continuazione sotto le lampade rosse questo mangime che sa di piscio salato, e guarda quanti siamo a beccare in queste gabbie basse del cazzo, senza giorno e senza notte. Siamo qua da otto giorni, li ho contati, da quando siamo usciti da quella macchina che faceva un caldo boia, tanto che quando sono riuscito a spaccare il guscio del mio uovo e a scappare fuori ho tirato un sospirone di sollievo. Era buio fuori e da una finestra ho visto pure un disco chiaro che illuminava la notte. Poi ci hanno messi in uno scatolone, eravamo quaranta, e via fin qua. Io qua i giorni li conto perché vengono gli operai a riempire mangiatoie e abbeveratoi e poco prima suona una sirena o come cazzo la chiamano, li ho sentiti parlare. Comunque quello è il segnale che un nuovo giorno di lavoro comincia. Una cosa non la capisco: perché ci danno sempre da mangiare? Ho  ascoltato gli operai, dicono che “il ciclo” è di 50 giorni, ma che cazzo è il ciclo? Pure questo granturco che ci hanno dato dopo la prima settimana non sa di niente! Se lo mangiassero loro, all’anima e chi v’è muort’!

SETTIMANE 3 e 4
A stento riesco a parlare. Due giorni senza notte fa è venuta una donna con il camice bianco. Ha spruzzato qualcosa fra le gabbie. Pasquale, quello più simpatico fra gli operai, ha versato delle gocce bianche nei nostri abbeveratoi, chissà a che servono. Però d allora mi sento gonfio, mi viene da scoppiare, magari sono proprio quelle gocce. Ieri è venuto uno stronzo vestito con un camice blu. Ha cominciato a prendere quelli della prima gabbia, là in fondo. A uno a uno li afferrava per le ali e con i guanti pesanti da lavoro e delle tenaglie affilate, ha cominciato a troncare di netto la punta del becco di quei poveretti. E come se la spassava quel cesso! Poi è passata una signora dell’amministrazione e gli ha detto qualcosa za quello stronzo: perché? E lui ha biascicato qualcosa, ho sentito, “annibalesimo” o “cannibalismo”, qualcosa del genere. Non so che cazzo vuol dire. Ho cominciato a tremare di paura, poi la signora ha detto qualcosa, tipo “legge 2012”  e quello stronzzo ha smesso di amputare becchi. Ancora tremo oggi dopo più di un giorno senza notte e ringrazio il Dio dei pulcini. Qua nella gabbia stiamo crescendo alla svelta e già viene fuori più di un bullo-pollo del cazzo! Io non riesco nemmeno a stendere le ali, lo spazio è troppo poco. Che vita di merda!

SETTIMANA 5
Ci è spuntata una cosa morbida e rossa in testa chissà che cos’è? A qulacuno no però! Mah! Sono diveri da noi, e sono attraenti, secondo me sono pollastrelle! L’ho sentito da Pasquale. Ho fatto amicizia con una di queste che si fa chiamare Polly. Polly ha dei bei occhioni marroni e anche le sopracciglia, sì le sopracciglia e se devo dire la verità, sono proprio le sopracciglia che ci fanno impazzire a noi galletti maschi. Magari ci accoppiamo io e Polly e chi lo sa, qua è un inferno, nemmeno riusciamo a muoverci più ora che siamo diventati più grandi. Uno dei bullo-polli della nostra gabbia ha beccato Pasquale e gli ha fatto uscire un sacco di sangue dalla mano. Qualche volta di questa gliela faccio vedere io a quel bulletto, che si fa chiamare Dock, perché prendersela proprio con le brave persone e per di più senza motivo?

SETTIMANA 6
Le cose si mettono male! Ho sentito Pasquale che parlava con il suo capo, uno con la faccia bitorzoluta e sempre rosso di colorito. Sarà perché sta sempre con la bottiglia di birra fra le mani, 24 ore al giorno senza notte! Diceva che ci taglieranno presto il collo! A tutti! Sì avete capito bene, ci vogliono uccidere daal primo all’ultimo, noi che siamo venuti insieme in questo posto di merda 5 settimane fa. Cosa fare? Ho smesso di litigare con Dock e mi sono fatto insegnare come si becca. E anche come si affila il becco sul bordo dell’abbeveratoio, quel pezzo di lamierino sottile che avanza fra il sostegno e la parete della gabbia. Anche agli altri galletti Dock ha insegnato ad affilare e a beccare duro. A me non mi importa di morire, beccherò fino all’ultimo sangue, ma mi preoccupo per Polly. Però forse, la cambiano di posto e la trasferiscono fra le galline che fanno le uova per venderle all’ingrosso. Spero che possa vivere un altro po’.
Appena verranno a prenderci, per la mattanza, ho sentito che è fissata per stasera, ci ribelleremo come un sol gallo! Facciamo come succede in quel libro di cui parlava Pasquale con l’autista del camion, su degli uomini rossi, anche loro con le piume in testa, che resistettero fino all’ultima piuma rossa di sangue per difendere la loro terra, le colline nere, dagli uomini bianchi avidi di oro. Ho preso un nome di battaglia: mi chiamerò “Little Chick Horn”, così ho capito che si chiamava il posto dove gli uomini rossi fecero a pezzi i bianchi, anche se poi persero la guerra. Pure noi faremo così.

Ribellarsi è giusto e Little big Horn sono copyright di © 2016 Stefano di Stasio. Ogni plagio sarà perseguito in termini di legge.


mercoledì 19 aprile 2017

PM04. Il SERPENTE di FIUME
© 2017 Stefano di Stasio, ogni abuso e plagio, lesivi del diritto d’autore, sarà perseguito in termini di legge
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Si guardava, girando le dita e osservando da diverse angolazioni, le unghie laccate di fresco di smalto semi-permanente viola chiaro, che le erano costate una cifra considerevole dall’estetista, eppure era amica sua da tempo. Di tanto in tanto con la mano destra pigiava sul display del suo mobile-phone di ultima generazione alla ricerca di una colonna sonora che le facesse dimenticare, nell’oblio causato dalle note e dal ritmo, le domande che un “cliente” nuovo le aveva rivolto una manciata di minuti prima, circa la sua disponibilità al coito anale mercenario. Ana era così, sembrava sfacciata nella contrattazione quotidiana conseguente alla sua attività di meretricio, là ai bordi della statale 69 che costeggiava il fiume, lungo la riva destra. E, tuttavia, bastava che qualche avventore le richiedesse delle prestazioni particolari per cominciare a imprecare e maledire Dio, per come era stato possibile che una ragazza romena di buona famiglia, con tanto di laurea in lingue e cultura turistica, potesse finire a fare la puttana su una cazzo di strada italiana di provincia.
Non che non fosse stata una sua libera scelta, per carità, ma quando si era ritrovata sbattuta fuori da quello stronzo del padrone del bar, dove lavorava come cameriera ai tavoli, e per di più rigorosamente al nero, e dopo che per tre mesi aveva cercato, senza successo, di trovare un qualsiasi lavoro, allora aveva deciso di vendere quello che agli uomini piace di più. In più, si era resa presto conto che la maggior parte dei clienti che appena intravedevano sotto l’orlo dei suoi abiti succinti colorati di rosso, il nero delle mutande trasparenti e il culo bene in evidenza con l’elastico immerso a scomparsa fra le sue natiche, accostavano di colpo, spesso a rischio di provocare brutti incidenti stradali in diretta proprio lì davanti alla sua sedia di plastica verde.
All’inizio della sua attività aveva pagato il prezzo della sua poca pregressa esperienza di attività sessuali. Laggiù a Iasci, in Romania, aveva avuto un solo fidanzato, Ivan, ma a lui bastava guardargli il sesso con un filo di insistenza e appoggiargli una mano sopra i pantaloni, per farlo arrivare subito. Forse la scopata più lunga che si ricordava era durata due minuti, forse anche meno.
Ma comunque, Ana era una ragazza di 25 anni e attraente, e i clienti non erano mancati nemmeno all’inizio, abituati come erano alle puttane dell’est ultraquarantenni, reduci dal solito divorzio con il solito marito ubriacone, e alla manciata di figli piccoli al paese cresciuti dai nonno e da mantenere da sole con i proventi della loro attività di emigrate del sesso in Italia. Aveva imparato dalle sue colleghe più anziane la sigla della prestazione bocca-fica e il prezzo convenuto sulla piazza della statale 69 che era di 20 euro. Per lei abituarsi a prendere in bocca il pene dei clienti, anche per un solo minuto, in modo che venisse duro, non era stato così semplice perché le veniva da vomitare. E per questo in fondo provava schifo un po’ per tutti quelli che venivano a consumare da lei con il dichiarato volio di bukkino. Come facessero a eccitarsi mentre lei dava di stomaco non lo capiva e nella sua mente li trasformava da manna dal cielo perché portavano soldi freschi, in fogna maledetta tanto che questa perversione la lasciava schifata. Poi qualcuno di loro le aveva detto che la moglie quella parola, bukkino, non la voleva nemmeno sentire e che, quando da fidanzati, ai tempi della gioventù, avevano proposto il rapporto orale si erano ritrovati presi a borsate o posaceneri in faccia. E perciò, gli uomini sposati, che erano quasi il novanta per cento dei clienti, venivano dalle puttane per farsi passare “u’ sfizio” come le aveva riferito tempo fa un settantenne sporcaccione impenitente. Una sua amica, pure lei puttana ma proveniente dall’Albania, le aveva svelato il segreto di mestiere, di accompagnare l’ascensore su e giù di bocca con il lavoro di mano, e lei l’aveva fatto per un po’ finché un giorno, un impiegato delle poste sulla cinquantina si era incazzato e le aveva urlato in testa che lui voleva un bukkino vero non una sega. E così aveva provato a succhierlo anche mentre andava su e giù, tanto per sveltire la prestazione. Non ci voleva un genio della finanza per capire che quanto più breve era la seduta, cioè quanto prima il cliente arrivava, tanti più clienti poteva ricevere là in quella baracca di campagna
oppure appoggiata al cofano della macchina, dietro alla duna che c’era fra il fiume e la strada, laddove non arrivava lo sguardo di quelli che transitavano sulla statale 69. Alla fine della giornata non li contava nemmeno più, se ne faceva un’idea dal numero delle banconote da 20 euro che aveva conservato in borsa, ma nemmeno il conteggio era affidabile, perché qualche cliente tirato spuntava la sua prestazione anche per 15 Euro nelle giornate di magra.
Era stata una mattinata senza fortuna, quel giorno di inizio primavera. Quando era arrivata la nebbia ancora saliva dal fiume e il freddo si attaccava alla maglietta che lasciava scoperte le generose tette e al culo che sciabordava dagli slip. Ana stava seduta sulla sua sedia di plastica verde e aspettava che con il sole di mezzogiorno spuntassero altri clienti. Di prima mattina, erano andati a trovarla due anziani perché loro sono abitudinari consumatori di pillole blu, e dunque, dopo un’ora sanno che fa effetto e loro prima di una certa ora si devono ritirare perché ci hanno la siringa di insulina per il diabete e la moglie che cucina a orario. Che brutti tempi che erano venuti in quel marzo del cazzo, dopo il fulgido inizio dell’anno scorso, quando aveva cominciato a fare la puttana, con un andirivieni pressoché continuo e un guadagno giornaliero che a volte arrivava a 500 euro, che significa, dividendo per la tariffa standard, 25 clienti. E non era nemmeno un record a quei tempi, Sara la sua amica bionda e prosperosa di clienti ne aveva avuto anche 30 in un solo giorno di luglio dalle 9 di mattina alle 20 di sera. Adesso tirava aria di crisi e se Ana si ritirava con 60 euro a casa la sera si riteneva fortunata. Sara, dal canto suo, aveva abbassato i prezzi, glielo aveva detto un cliente, pur di guadagnare, ma lei aveva tre figli bambini a casa da mantenere. E Sara era instancabile, questo Ana glielo riconosceva, era capace di spompinare anche per un quarto d’ora senza fermarsi.
Ana aveva riflettuto su come rendere più competitiva sul mercato del bukkino della statale 69 la sua prestazione. Era arrivata alla conclusione, che poteva usare di più la lingua. E così si era esercitata ad avvolgere la lingua sul cono gelato, prima di arrivare alla convinzione che quella simulazione alimentare si poteva effettivamente tradurre in una profittevole pratica lavorativa. I risultati l’avevano sorpresa. Bastava che attorcigliasse in un movimento a spirale la lingua attorno al glande dei clienti, e questi s ne venivano subito dopo una manciata di secondi, casomai urlando che l’avevano fatta impazzire o che un bukkino così non l’avevano lai avuto. Il che per lei significava meno conati di vomito e più soldi. L’uovo di Colombo. Quello che poi era esilarante, visto che lei, come tutte, si faceva pagare in anticipo, era che i clienti, venuti per scopare, a loro dire almeno 20 minuti, erano là con il cazzo moscio in mano umido di sperma che fuoriusciva dal preservativo, dopo massimo 2 minuti di bukkino a serpente. E se la prendevano con il cazzo, lo eleggevano totem capace di ascoltare le loro imprecazioni su come li avesse traditi, arrivando all’eiaculazione praticamente a tradimento dopo qualche attimo di inebriante passione a pagamento. Ana si mostrava solidale rispetto alle loro lamentele, ma dentro si sé se la rideva alla grande, era meglio guadagnare 20 euro al minuto che 20 euro in 20 minuti di sforzi tesi all’erezione e all’orgasmo tardivo di quegli stronzi, si capisce. E il cliente, con il cazzo ormai ammosciato, era disarmato e patetico, e si vergognava pure un po’ perché nel suo immaginario di maschio, aveva deluso la partner, anche se era una puttana. Comunque la considerava una figura di merda arrivare dopo mezzo minuto.
Da pochi minuti era arrivato un cliente nuovo. Non aveva fatto nessuna storia sul prezzo, e questo era già tanto. Contadini, fruttivendoli e camionisti le chiedevano sempre lo sconto. Ma questo no. Capelli brizzolati sui quarantacinque anni, al volante di un suv, portava sul parabrezza la croce e, dunque, era un medico. Ana era salita a bordo della ampia vettura. Lui aveva reclinato leggermente il sedile, mettendosi comodo e si era sbottonata la giacca e scostando la cravatta, aveva tirato giù la zip dei pantaloni in lana misto lino. Ana glielo aveva tirato fuori dai boxer e aveva cominciato a spompinare, e siccome questo ce l’aveva abbastanza piccolo e lei aveva la lingua corta, era financo riuscita ad avvolgergli tutta la capocchia. Il dottore, aveva cominciato ad ansimare forte. Emetteva un mugghio misto di lamento e mormorava a voce sempre più forte “dai troia, fammi impazzire, sei una puttana di merda, dai continua così”. Nemmeno  si era accorto nel suo ottuso godimento, che Ana aveva cominciato a lavorare anche di mano, tanto per truffare un po’, e si continuava a guardare le unghie mentre stringeva l’asta con la mano destra. Se la rideva di brutto dentro di lei e dapprima non ci fece caso, quando le unghie a smalto semipermanenti cambiarono da viola chiaro a grigio con macchioline celesti. Continuava a spompinare, e questa volta sì, si rese conto che le dita della mano destra si erano ricoperte di un velo strano, lucente a scaglie sempre di colore grigio chiaro e celeste.
Ma non si fece prendere dal panico, anzi. Era come se, finalmente, si sentisse se stessa. Il movimento della sua lingua attorno al cazzo del medico sembrava adesso che la coinvolgesse con tutto il corpo, che si rotolava e srotolava attorno al membro con fluidità inaspettata. Si guardò attorno e si ritrovò in quella strana scatola di metallo, illuminata, che si apriva come un buco del terreno con quelle porte rivestite di pelle. Ma sì, che le importava adesso. Con la pupilla a losanga guardò verso la baracca. Che inutile messa in scena. Fingersi una donna a sangue caldo che fa la puttana. Era venuto il momento di cambiare pelle. Adesso la verga dell’uomo si era fatta ammosciata ma lei la sentiva ancora bollente. Continuò a serrare quel pezzo di carne fra le sue spire, mentre il dottore urlava a squarciagola il suo terrore con gli occhi sbarrati e le braccia e le gambe paralizzate. Aveva irrigidito i glutei mentre quella serpe di fiume indugiava fra le sue cosce avvolgendosi sulle spire e soffiando infastidita. Ana con la testa a triangolo, si divertiva a saggiare le vibrazioni dell’aria nella scatola di ferro, eiettando e ritirando ritmicamente la lingua bifida. Adesso non ci vedeva più bene come prima quando era travestita da puttana di provincia. La vena dorsale del cazzo dell’uomo pulsava come un cuore aperto offerto ad un dio minore. Serrò ancora di più le spire, il dottore non riusciva a emettere parole di senso compiuto, la paralisi gli era arrivata anche alla lingua, la sua lingua questa volta, che frustava l’aria calda della tarda mattinata tesa come una corda al di fuori della bocca aperta. Ana provò, come quando era arrivato da lei, schifo per quell’uomo ridicolo. Aspettò che l’uomo impazzisse, voleva impazzire, l’aveva detto lui stesso poco prima. Tanto lei non poteva udirlo, riusciva a sentire poco adesso. Poi si sciolse da quello che era diventato il cadavere di un pene, tanto era livido e molliccio, e strisciò fuori della portiera sull’erba già alta verde smeraldo, mentre il sole faceva luccicare come un gioiello il suo corpo di silfide grigio a scaglie celesti, finché scomparve sotto un mucchio di canne secche poco lontano.
© 2017 Stefano di Stasio, testo e foto. Ogni abuso e plagio sarà perseguito in termini di legge