Si guardava, girando le dita e osservando da diverse
angolazioni, le unghie laccate di fresco di smalto semi-permanente viola
chiaro, che le erano costate una cifra considerevole dall’estetista, eppure era
amica sua da tempo. Di tanto in tanto con la mano destra pigiava sul display
del suo mobile-phone di ultima generazione alla ricerca di una colonna sonora
che le facesse dimenticare, nell’oblio causato dalle note e dal ritmo, le
domande che un “cliente” nuovo le aveva rivolto una manciata di minuti prima,
circa la sua disponibilità al coito anale mercenario. Ana era così, sembrava
sfacciata nella contrattazione quotidiana conseguente alla sua attività di
meretricio, là ai bordi della statale 69 che costeggiava il fiume, lungo la
riva destra. E, tuttavia, bastava che qualche avventore le richiedesse delle
prestazioni particolari per cominciare a imprecare e maledire Dio, per come era
stato possibile che una ragazza romena di buona famiglia, con tanto di laurea
in lingue e cultura turistica, potesse finire a fare la puttana su una cazzo di
strada italiana di provincia.
Non che non fosse stata una sua libera scelta, per carità, ma
quando si era ritrovata sbattuta fuori da quello stronzo del padrone del bar,
dove lavorava come cameriera ai tavoli, e per di più rigorosamente al nero, e
dopo che per tre mesi aveva cercato, senza successo, di trovare un qualsiasi
lavoro, allora aveva deciso di vendere quello che agli uomini piace di più. In
più, si era resa presto conto che la maggior parte dei clienti che appena
intravedevano sotto l’orlo dei suoi abiti succinti colorati di rosso, il nero
delle mutande trasparenti e il culo bene in evidenza con l’elastico immerso a
scomparsa fra le sue natiche, accostavano di colpo, spesso a rischio di provocare
brutti incidenti stradali in diretta proprio lì davanti alla sua sedia di
plastica verde.
All’inizio della sua attività aveva pagato il prezzo della
sua poca pregressa esperienza di attività sessuali. Laggiù a Iasci, in Romania,
aveva avuto un solo fidanzato, Ivan, ma a lui bastava guardargli il sesso con
un filo di insistenza e appoggiargli una mano sopra i pantaloni, per farlo
arrivare subito. Forse la scopata più lunga che si ricordava era durata due
minuti, forse anche meno.
Ma comunque, Ana era una ragazza di 25 anni e attraente, e i
clienti non erano mancati nemmeno all’inizio, abituati come erano alle puttane
dell’est ultraquarantenni, reduci dal solito divorzio con il solito marito
ubriacone, e alla manciata di figli piccoli al paese cresciuti dai nonno e da
mantenere da sole con i proventi della loro attività di emigrate del sesso in
Italia. Aveva imparato dalle sue colleghe più anziane la sigla della
prestazione bocca-fica e il prezzo convenuto sulla piazza della statale 69 che
era di 20 euro. Per lei abituarsi a prendere in bocca il pene dei clienti,
anche per un solo minuto, in modo che venisse duro, non era stato così semplice
perché le veniva da vomitare. E per questo in fondo provava schifo un po’ per
tutti quelli che venivano a consumare da lei con il dichiarato volio di
bukkino. Come facessero a eccitarsi mentre lei dava di stomaco non lo capiva e
nella sua mente li trasformava da manna dal cielo perché portavano soldi
freschi, in fogna maledetta tanto che questa perversione la lasciava schifata.
Poi qualcuno di loro le aveva detto che la moglie quella parola, bukkino, non
la voleva nemmeno sentire e che, quando da fidanzati, ai tempi della gioventù,
avevano proposto il rapporto orale si erano ritrovati presi a borsate o
posaceneri in faccia. E perciò, gli uomini sposati, che erano quasi il novanta
per cento dei clienti, venivano dalle puttane per farsi passare “u’ sfizio”
come le aveva riferito tempo fa un settantenne sporcaccione impenitente. Una
sua amica, pure lei puttana ma proveniente dall’Albania, le aveva svelato il
segreto di mestiere, di accompagnare l’ascensore su e giù di bocca con il
lavoro di mano, e lei l’aveva fatto per un po’ finché un giorno, un impiegato
delle poste sulla cinquantina si era incazzato e le aveva urlato in testa che
lui voleva un bukkino vero non una sega. E così aveva provato a succhierlo
anche mentre andava su e giù, tanto per sveltire la prestazione. Non ci voleva
un genio della finanza per capire che quanto più breve era la seduta, cioè
quanto prima il cliente arrivava, tanti più clienti poteva ricevere là in
quella baracca di campagna
oppure appoggiata al cofano della macchina, dietro alla duna
che c’era fra il fiume e la strada, laddove non arrivava lo sguardo di quelli
che transitavano sulla statale 69. Alla fine della giornata non li contava
nemmeno più, se ne faceva un’idea dal numero delle banconote da 20 euro che
aveva conservato in borsa, ma nemmeno il conteggio era affidabile, perché
qualche cliente tirato spuntava la sua prestazione anche per 15 Euro nelle
giornate di magra.
Era stata una mattinata senza fortuna, quel giorno di inizio
primavera. Quando era arrivata la nebbia ancora saliva dal fiume e il freddo si
attaccava alla maglietta che lasciava scoperte le generose tette e al culo che
sciabordava dagli slip. Ana stava seduta sulla sua sedia di plastica verde e
aspettava che con il sole di mezzogiorno spuntassero altri clienti. Di prima
mattina, erano andati a trovarla due anziani perché loro sono abitudinari
consumatori di pillole blu, e dunque, dopo un’ora sanno che fa effetto e loro
prima di una certa ora si devono ritirare perché ci hanno la siringa di
insulina per il diabete e la moglie che cucina a orario. Che brutti tempi che
erano venuti in quel marzo del cazzo, dopo il fulgido inizio dell’anno scorso,
quando aveva cominciato a fare la puttana, con un andirivieni pressoché
continuo e un guadagno giornaliero che a volte arrivava a 500 euro, che
significa, dividendo per la tariffa standard, 25 clienti. E non era nemmeno un
record a quei tempi, Sara la sua amica bionda e prosperosa di clienti ne aveva
avuto anche 30 in un solo giorno di luglio dalle 9 di mattina alle 20 di sera.
Adesso tirava aria di crisi e se Ana si ritirava con 60 euro a casa la sera si
riteneva fortunata. Sara, dal canto suo, aveva abbassato i prezzi, glielo aveva
detto un cliente, pur di guadagnare, ma lei aveva tre figli bambini a casa da
mantenere. E Sara era instancabile, questo Ana glielo riconosceva, era capace
di spompinare anche per un quarto d’ora senza fermarsi.
Ana aveva riflettuto su come rendere più competitiva sul
mercato del bukkino della statale 69 la sua prestazione. Era arrivata alla
conclusione, che poteva usare di più la lingua. E così si era esercitata ad
avvolgere la lingua sul cono gelato, prima di arrivare alla convinzione che
quella simulazione alimentare si poteva effettivamente tradurre in una
profittevole pratica lavorativa. I risultati l’avevano sorpresa. Bastava che
attorcigliasse in un movimento a spirale la lingua attorno al glande dei
clienti, e questi s ne venivano subito dopo una manciata di secondi, casomai
urlando che l’avevano fatta impazzire o che un bukkino così non l’avevano lai
avuto. Il che per lei significava meno conati di vomito e più soldi. L’uovo di
Colombo. Quello che poi era esilarante, visto che lei, come tutte, si faceva
pagare in anticipo, era che i clienti, venuti per scopare, a loro dire almeno
20 minuti, erano là con il cazzo moscio in mano umido di sperma che fuoriusciva
dal preservativo, dopo massimo 2 minuti di bukkino a serpente. E se la
prendevano con il cazzo, lo eleggevano totem capace di ascoltare le loro
imprecazioni su come li avesse traditi, arrivando all’eiaculazione praticamente
a tradimento dopo qualche attimo di inebriante passione a pagamento. Ana si
mostrava solidale rispetto alle loro lamentele, ma dentro si sé se la rideva
alla grande, era meglio guadagnare 20 euro al minuto che 20 euro in 20 minuti
di sforzi tesi all’erezione e all’orgasmo tardivo di quegli stronzi, si
capisce. E il cliente, con il cazzo ormai ammosciato, era disarmato e patetico,
e si vergognava pure un po’ perché nel suo immaginario di maschio, aveva deluso
la partner, anche se era una puttana. Comunque la considerava una figura di
merda arrivare dopo mezzo minuto.
Da pochi minuti era arrivato un cliente nuovo. Non aveva
fatto nessuna storia sul prezzo, e questo era già tanto. Contadini,
fruttivendoli e camionisti le chiedevano sempre lo sconto. Ma questo no.
Capelli brizzolati sui quarantacinque anni, al volante di un suv, portava sul
parabrezza la croce e, dunque, era un medico. Ana era salita a bordo della
ampia vettura. Lui aveva reclinato leggermente il sedile, mettendosi comodo e si
era sbottonata la giacca e scostando la cravatta, aveva tirato giù la zip dei
pantaloni in lana misto lino. Ana glielo aveva tirato fuori dai boxer e aveva
cominciato a spompinare, e siccome questo ce l’aveva abbastanza piccolo e lei
aveva la lingua corta, era financo riuscita ad avvolgergli tutta la capocchia.
Il dottore, aveva cominciato ad ansimare forte. Emetteva un mugghio misto di
lamento e mormorava a voce sempre più forte “dai troia, fammi impazzire, sei
una puttana di merda, dai continua così”. Nemmeno si era accorto nel suo ottuso godimento, che
Ana aveva cominciato a lavorare anche di mano, tanto per truffare un po’, e si
continuava a guardare le unghie mentre stringeva l’asta con la mano destra. Se
la rideva di brutto dentro di lei e dapprima non ci fece caso, quando le unghie
a smalto semipermanenti cambiarono da viola chiaro a grigio con macchioline
celesti. Continuava a spompinare, e questa volta sì, si rese conto che le dita
della mano destra si erano ricoperte di un velo strano, lucente a scaglie
sempre di colore grigio chiaro e celeste.
Ma non si fece prendere dal panico, anzi. Era come se, finalmente,
si sentisse se stessa. Il movimento della sua lingua attorno al cazzo del
medico sembrava adesso che la coinvolgesse con tutto il corpo, che si rotolava
e srotolava attorno al membro con fluidità inaspettata. Si guardò attorno e si
ritrovò in quella strana scatola di metallo, illuminata, che si apriva come un
buco del terreno con quelle porte rivestite di pelle. Ma sì, che le importava
adesso. Con la pupilla a losanga guardò verso la baracca. Che inutile messa in
scena. Fingersi una donna a sangue caldo che fa la puttana. Era venuto il
momento di cambiare pelle. Adesso la verga dell’uomo si era fatta ammosciata ma
lei la sentiva ancora bollente. Continuò a serrare quel pezzo di carne fra le
sue spire, mentre il dottore urlava a squarciagola il suo terrore con gli occhi
sbarrati e le braccia e le gambe paralizzate. Aveva irrigidito i glutei mentre
quella serpe di fiume indugiava fra le sue cosce avvolgendosi sulle spire e
soffiando infastidita. Ana con la testa a triangolo, si divertiva a saggiare le
vibrazioni dell’aria nella scatola di ferro, eiettando e ritirando ritmicamente
la lingua bifida. Adesso non ci vedeva più bene come prima quando era
travestita da puttana di provincia. La vena dorsale del cazzo dell’uomo pulsava
come un cuore aperto offerto ad un dio minore. Serrò ancora di più le spire, il
dottore non riusciva a emettere parole di senso compiuto, la paralisi gli era
arrivata anche alla lingua, la sua lingua questa volta, che frustava l’aria
calda della tarda mattinata tesa come una corda al di fuori della bocca aperta.
Ana provò, come quando era arrivato da lei, schifo per quell’uomo ridicolo.
Aspettò che l’uomo impazzisse, voleva impazzire, l’aveva detto lui stesso poco
prima. Tanto lei non poteva udirlo, riusciva a sentire poco adesso. Poi si
sciolse da quello che era diventato il cadavere di un pene, tanto era livido e
molliccio, e strisciò fuori della portiera sull’erba già alta verde smeraldo,
mentre il sole faceva luccicare come un gioiello il suo corpo di silfide grigio
a scaglie celesti, finché scomparve sotto un mucchio di canne secche poco
lontano.