Cerca nel blog

venerdì 23 marzo 2012

Finché morte non ci separi

di Stefano di Stasio


Stavo attaccato con il naso sul vetro. Dall’altra parte cinque lettini. Sembrava una navicella spaziale. Su ogni branda una serie di monitor passava allo sguardo distratto del medico in servizio l’eco dei segnali fisiologici dei pazienti del reparto rianimazione. Un tubo abbastanza spesso scendeva come un pitone verso il viso dei pazienti con la bocca spalancata a forma di mascherina, tesa nello sforzo di divorarli. Nessuno dei pazienti si muoveva. Dai picchi del battito cardiaco emergeva il loro stato di viaggiatori, a metà fra questo mondo e l’aldilà. Mi soffermai sul letto a sinistra. Era un uomo. Bruno, di bell’aspetto, alto tanto da sfiorare con i piedi le sbarre all’estremità del letto. Mi voltai alla mia sinistra, là dove sentivo un rumore intermittente. Era una donna che singhiozzava cercando di trattenere il pianto.
"È mio marito" mi disse, quasi si vergognasse del suo sfogo
"Abbiamo due figli ancora piccoli. Ieri sera si è sentito male appena rincasato dal lavoro. È sbiancato e si è accasciato su una sedia. Io non so guidare, ho dovuto chiamare un’ambulanza. Abitiamo in paese. C’è voluta più di mezz’ora per arrivare fin qui. Povero Renzo. Il medico di guardia al pronto soccorso ha parlottato con un infermiere e ha disposto il ricovero. Dice che non se la caverà. Aneurisma dell’aorta."
Ebbe un sussulto, si asciugò le lacrime, poi continuò con un tono di voce più freddo:
"Ci siamo conosciuti quando lui aveva quindici anni e io tredici. Siamo insieme da una vita. Abbiamo affrontato tante difficoltà. Mai un momento di crisi fra noi. Quando è nato il nostro primo figlio, il nostro rapporto è cambiato. Renzo sembrava assente, non riusciva a trovare il suo nuovo ruolo in famiglia. Poi, piano piano, con l’aiuto di Dio, abbiamo ritrovato la nostra unione. È venuto il secondo figlio. Era una bella famiglia, e adesso… "
Si chiamava Elena. Mossa da un bisogno insopprimibile di sfogo, continuava a parlarmi quasi automaticamente, fermandosi a tratti per asciugarsi le lacrime, quando la tensione si scioglieva in un pianto dirotto soffocandole le parole in gola.

Come era diversa la sua storia dalla mia. Volsi lo sguardo sul lettino di destra. Dalla maschera a ossigeno emergevano i capelli di Manuela, mia moglie. L’avevo conosciuta quando ancora faceva la prostituta in un quartiere bene di Roma. Aveva venti anni meno di me. Riceveva i clienti solo per appuntamento. Sul suo sito mi aveva colpito perché anziché mostrarsi nuda, aveva riportato la foto di una mela avvolta in una delicata lingerie di colore nero. Sembrava sottintendere con malizia "Mordimi". E così avevo telefonato e concordato un appuntamento. Mi era parsa un po’ impacciata, forse il fatto di mostrarsi in carne e ossa la imbarazzava. Sulle labbra che spiccavano su una carnagione bruna aveva messo del rossetto verde. Questa volta la lingerie era al posto giusto. Il nostro rapporto mercenario era continuato per un po’ finché un giorno mi aveva detto:
"Sono stanca di questa vita. Sono stanca di sorbirmi gli umori dei miei clienti pieni di soldi. Di sopportare le loro fantasie assurde. Pensa che uno ieri voleva fare l’amore e contemporaneamente pretendeva di stringermi la gola con una corda per soffocarmi. Altri vogliono essere frustati. Anche le donne non le sopporto. Vogliono vivere la loro bisessualità. Ma non hanno il coraggio di ammetterlo in pubblico. E si rivolgono a me. Portami via da questo posto, da questa città. Sarò una moglie perfetta, te lo prometto. Sono stufa. Non ce la faccio più a prepararmi con queste creme schifose, a depilarmi tutto il tempo e a fare la fame per mantenere un fisico che possa sempre eccitare. Ho voglia di piacere solo a te. Voglio stare in casa, prepararti da mangiare, avere il tempo di riflettere sulla mia vita"
Lì per lì non seppi rispondere alla sua domanda. Mi chiedeva di condividere la mia esistenza che, per quanto agiata, comunque non era in grado di conferire nelle sue mani quelle cifre a quattro zeri che si procurava facendo la escort. Per qualche giorno non ci sentimmo. Poi alla fine mi dissi:
"Mah, perché non provare, chissà quanti uomini sposano delle prostitute e non lo sanno neppure. Almeno Manuela è stata sincera. Ha voglia di stare con me. Sono solo, vediamo se funziona".

E così ci sposammo con una cerimonia riservata in una piccola cappella abbarbicata sui contrafforti degli Appennini, non lontano dal passo della Futa. Invitai quei pochi amici che mi erano rimasti dopo l’università e che non vedevo da tempo. Mi guardai bene dal raccontare come avevo conosciuto la mia prossima moglie. Andammo a vivere nel mio appartamento. Andò tutto bene. Lei era impaziente di dimostrare a se stessa che poteva essere una donna normale e una sposa devota. Era premurosa. Non capiva nulla di cucina eppure cominciò a studiare su alcuni manuali come poteva prepararmi da mangiare.
Riuscii a dedicare più tempo a me stesso. Cominciai a pubblicare delle recensioni su una rivista di vini. Sentirsi voluti bene ti dà opportunità. Potei perfino non pensare troppo al mio lavoro. Durante la settimana mi assentavo spesso da casa, sbattuto come una pallottola impazzita nei posti dove il mio capo mi diceva di andare, spinto dalle sue intuizioni commerciali che a me sembravano il delirio di un folle. E, tuttavia, riuscivo a sorridere della sua grettezza. La mia nuova vita di coppia mi aveva dato una serenità insospettata.

Quella mattina ero in ufficio a controllare delle pratiche e a inserire gli ordini nel software di contabilità. Mi avevano telefonato dall’ospedale. I vicini l’avevano vista uscire di casa e poi perdere i sensi. Qualcuno aveva chiamato un’ambulanza. Ero corso, l’avevo trovata direttamente in sala rianimazione. Mi avevano spiegato che aveva ingerito dosi massicce di psicofarmaci e antiepilettici. Ma perché lo aveva fatto? Non mi ero accorto di nulla.
Mi trovavo ora a condividere la stessa sorte della mia vicina di postazione, Elena, che piangeva per il marito. Venne la sera. Ci invitarono a uscire. La mattina dopo non trovammo nessuno in sala. Renzo e Manuela erano deceduti nel corso della nottata. Ci dissero che erano stati spostati in obitorio. Con Elena a passo veloce raggiungemmo il seminterrato. Non ci fecero entrare, dissero per motivi di sicurezza. Era la fine che ci aveva preannunciato, nemmeno con tanto tatto, il medico di guardia già il giorno prima. Restammo inebetiti davanti a quella porta di ferro, incapaci di scambiare nemmeno una parola. Poi qualcuno si avvicinò per indicarci dove potevamo contattare il servizio di pompe funebri.
Quello che successe dopo è quello che succede sempre quando c’è un morto in famiglia. Ordinammo la bara. Ci fu una messa nella cappella dell’ospedale. Poi insieme, ai familiari di Elena, accompagnammo le due bare al cimitero che era non distante dall’ospedale.

Non rividi più Elena per diversi anni. La mia vita era corsa come una nuvola sbattuta dai venti. Ero stato incapace di ritrovare quell’amore che Manuela mi aveva regalato negli anni in cui era stata con me. Avevo continuato a inseguire gli stand e le fiere che il mio capo seguitava a programmare nella sua pazzia. Poi, in una mattina d’autunno, stanco del mio lavoro, mi ero diretto al parco. Guardavo gli alberi che si spogliavano lentamente dei loro colori e lanciavano i rami nudi in alto, come urla disperate verso il cielo. Dal di sotto della panchina sentii qualcosa sfiorarmi il polpaccio. Una volta, poi una seconda. Mi sporsi per vedere. Era un piccolo yorkshire che mi fissava con gli occhi scuri e lucenti.
"Stupido cane, vaffanculo! Cosa vuoi da me? Lasciami perdere!" dissi a bassa voce mentre il mio sguardo si appuntava sul ridicolo fiocco legato sul pelo, fra le orecchie. Mi mostrò la lingua, scodinzolando. Intuii le sue intenzioni e feci per muovere una impacciata carezza.
"Briciola, lascia stare il signore!" udii urlare in direzione del vialetto. Era una signora, ben vestita, che si avvicinava con passo spedito. Sul momento non la riconobbi. Si fermò dopo qualche metro, mi fissò un attimo e con un sorriso mi disse:
"Renzo! Cavolo, ne è passato di tempo. Ma tu guarda, che piacere rivederti lontano da quel maledetto ospedale!".
Era Elena. Chissà perché, dopo tanto tempo l’avrei immaginata di aspetto trasandato, con i capelli non curati, vestita di nero. Invece no. Eccola qua, il trucco rifatto, un rossetto perla che gli illuminava il viso nella cornice di una messa in piega perfetta. Un tailleur blu e una sciarpa provenzale le donavano un tocco vanità.
"Ti trovo molto bene. Sono contento per te. Io sto ancora male. E i tuoi bambini? Avrei voluto dirti allora una parola di conforto ma non ne fui capace, scusa".
Mi guardò con aria come stizzita, quasi esitando a parlare. Poi non riuscì più a trattenersi e sbottò:
"Ah, Renzo! Quel bastardo, il marito devoto della mia vita! Mi ha mandato in psicanalisi. Da qualche mese sto cercando di venirne fuori. Aveva combinato tutto con il medico di guardia e l’infermiere. Si era finto morto per filarsela con una donna molto più giovane di lui. Non so dove sia sparito ma di sicuro so che non mi ha mandato più un soldo per i nostri figli. Qualcuno dice che si sia messo con una ex-prostituta, una che aveva la mania di mettere le mele nelle mutandine nere per adescare i clienti. Ci pensi?".


© testo e foto di Stefano di Stasio 2011 / ® Riproduzione riservata


1 commento:

  1. Un bel racconto...un finale che spiazza, proprio come la vita!
    Buona giornata.

    RispondiElimina