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domenica 27 novembre 2011

Intervista ad Alessandra Pontecorvo, autrice di “La Perla nel tempio” raccolta di racconti

a cura di Stefano di Stasio



Dalla quarta di copertina:

…Da sempre l’uomo sente di aver perso l’Eden, uno stato di beatitudine primigenia in cui aveva tutto e non mancava di nulla. Sente di aver perso tutto questo per una colpa commessa. Ecco, da questo senso di perdita che ci accomuna tutti, dal senso di stupore che ci pervade quando ci rendiamo conto di partecipare tutti a questo sentimento, nascono i dodici racconti riuniti in questo libro. Tutti parlano di una perdita: presunta o drammaticamente reale, riparabile o irreparabile, che riguarda un oggetto banale o la persona più amata o addirittura la vita stessa. A volte, questi racconti finiscono bene, a volte finiscono male, esattamente come accade nella vita. Ma tutti questi racconti nascono dallo stupore di apprendere che nell’altro che si trova di fronte a noi, la perdita risuona nello stesso identico modo in cui risuona in noi stessi…



1. Buongiorno Alessandra. La sua raccolta di racconti "La perla nel Tempio" si apre con una citazione di Primo Levi: "…Ciò che comunemente intendiamo per comprendere / coincide con semplificare: / senza una profonda semplificazione il mondo intorno a noi / sarebbe un groviglio infinito e indefinito, / che sfiderebbe la nostra capacità di orientarci e di decidere". Qual è la semplificazione che propone in questa raccolta di undici racconti?

La semplificazione che propongo è la narrazione dell’empatia, e cioè di un sentimento. In questo caso, del sentimento della perdita, vera o presunta, e dell’empatia da essa generata. Per quanto i sentimenti legati alla perdita siano quasi certamente bagaglio comune, devono comunque essere trasformati in narrazione e quindi analizzati, compresi, essenzializzati, decomposti e poi ricomposti in un insieme condivisibile. Ho fatto la scommessa di sintonizzarmi col lettore in modo da creare una consonanza. Un tentativo un po’ in controtendenza rispetto all’estetica contemporanea secondo la quale il lettore deve essere "scioccato" e la sua attenzione catturata attraverso narrazioni trasgressive (delitti, devianze, sesso) o evocazioni di mondi inesistenti (maghi, vampiri, ecc).


2. Nel racconto che dà il titolo al libro "La perla nel tempio" la protagonista partecipa a una cerimonia di battesimo nel Tempio ebraico, appunto il Bat Mitzvà della figlia di un’amica. Nel corso della storia smarrisce un orecchino con una preziosa delle due perle del Bahrein, regalo del marito. Inizia così una rocambolesca e affannosa ricerca della perla perduta. La protagonista che "…non era tipo da prendere iniziative.." si rimprovera di aver voluto cambiare la montatura originale degli orecchini con una senza il fermo. Da un certo punto di vista è come la perdita della perla le avesse confermato ciò che ha perduto alla sua nascita. È infatti figlia di una madre cristiana e di un padre ebreo che si è convertito, impedendole così di essere considerata a sua volta ebrea. Nell’immaginario della protagonista si confrontano le reazioni e i commenti allo smarrimento di questo oggetto feticcio della madre e quelle opposte del padre. Che cosa è per lei la perla e la sensazione di perdita?

Una piccola correzione: il Bar Mitzva (o Bat Mitzvà, per le ragazze) è la cerimonia di Confermazione e si svolge intorno ai 12, 13 anni. Ho cercato di raccontare in modo leggero quella che per me è stata una tragedia, un trauma inenarrabile. Nel momento in cui - da adolescente - mi sono resa conto che il fascismo e le leggi razziali avevano causato l’uscita della mia famiglia dall’Ebraismo (e via via, man mano che, studiando, mi rendevo conto di cosa avevo perso sul piano spirituale personale e di cosa aveva rappresentato storicamente la Comunità Ebraica di Roma), ho avuto una reazione violentissima e duplice: da una parte ho rifiutato la "normalità" che percepivo come impostami contro la mia volontà, dall’altra ho cercato di recuperare più Ebraismo possibile sia sul piano esistenziale sia sul piano culturale. La perla è la figlia dell’ostrica, dice la simbologia ebraica. E’ il prodotto, estremamente prezioso, di una gestazione attraverso la quale un insignificante granello di sabbia viene ricoperto di madreperla e diventa un globo luminoso di grande bellezza e valore. Si diventa "perla" (se si desidera) dopo un prolungato sforzo di autocostruzione, di cadute e risalite, di dono di sé nonostante la paura, il senso d’inadeguatezza, attraverso un costante sforzo di vivere e di non essere mai soli e di non far mai sentire solo chi ti è vicino. La perla è quello che vorrei diventare per poi restituire me stessa al Tempio, inteso non tanto come edifico, luogo fisico (anche se per me la Sinagoga di Roma è il luogo per eccellenza), quanto come un luogo spirituale universale, un luogo di conciliazione e di non-esclusione.


3. In uno dei suoi racconti "Opus Dei" lei esprime attraverso la protagonista un atteggiamento ambivalente nei confronti delle modalità di relazione della società italiana contemporanea. Per esempio, per superare le obiezioni di un impiegato di banca riguardo alla richiesta di restituzione di una tessera inghiottita dal terminale del bancomat, la donna decide di chiedere l’intervento di un parente perché "la famiglia è l’unica istituzione che funziona in Italia" per poi poco dopo chiedersi "Perché in questo paese nessuno si prende le sue responsabilità?". Dopo qualche altra battuta la protagonista si chiede come mai una persona "totalmente inadatta alla vita" come lei abbia avuto il coraggio di mettere al mondo dei figli. Ci può parlare di queste sensazioni "oscure", di questo senso di inadeguatezza, nella coscienza di una donna di oggi?

Anche in questo racconto ho cercato di rendere in modo un po’ grottesco, un po’ caricaturale, l’infinta serie di intoppi, di incidenti quotidiani, uno stillicidio di ostacoli inutili e assurdi che ci distraggono costantemente dalle cose importanti imponendoci relazioni che non scegliamo e che influenzano in modo determinate la qualità della nostra vita. Una donna che ha una figlia adolescente che decide di iscriversi a un corso di giapponese, dovrebbe semplicemente stare lì a bearsi del successo educativo conseguito: ha una figlia in cerca di stimoli forti, di sfide e, incredibilmente, li cerca sul piano culturale e su un piano culturale molto raffinato. Oppure dovrebbe star lì a dire alla figlia quanto è fiera di lei, quanto condivide i suoi interessi, che, se potesse, si iscriverebbe pure lei al corso di giapponese; dovrebbe avere l tempo di passare in rassegna, con la figlia, tutte le opportunità che si aprono in conseguenza di una scelta del genere. Invece, ecco che i mezzi pubblici non funzionano, il luogo dell’esame diventa irraggiungibile, l’ansia di non fare in tempo a causa del traffico sovrasta tutto, il tentativo di comprarsi un paio di occhiali in farmacia per ingannare l’attesa leggendo un po’ magari seduta in pasticceria a sorseggiare un tè si rileva una fonte di ulteriore ansia, contatti umani coatti e indesiderati, di nuovo paura di non fare in tempo … Ritengo veramente che i tempi e i valori che ci vengono imposti siano stupidamente distruttivi. Soffocanti.


4. Lei sostiene che "a volte il senso di perdita precede addirittura la perdita" producendo uno sgomento, un senso di colpa, che ci portiamo dentro da epoche ancestrali a causa della perdita dell’Eden. Può sembrare un punto di vista "eretico" per certi versi: nell’uomo ci sarebbe la divinità primigenia decaduta per sua colpa, per dirla alla Jean Cocteau malheureuse par sa faute, e, contemporaneamente, la sensazione, il senso di ciò che abbiamo perso, cioè l’Eden. Abbiamo diritto al Paradiso, sia esso in terra o altrove?

Vorrei veramente congratularmi con Lei per questa domanda. Vede, il racconto biblico è stato scritto dopo moltissimi anni in cui è stato tramandato oralmente. La prima cosa che mi preme sottolineare è che da sempre l’umanità si è "raccontata", ha raccontato se stessa a se stessa, prima oralmente e poi per iscritto. Io credo che gli uomini, man mano che evolvevano spiritualmente ed eticamente e acquistavano il senso dell’importanza e dell’unicità, irripetibilità, della propria vita, si chiedessero con sempre più forza perché gli toccava nascere se poi bisognava certamente morire. Leggendo il Genesi, mi sembra di capire che il timore di Dio abbia inibito agli uomini che hanno raccontato la Creazione di addossare al Creatore questa contraddizione, preferendo ascriversi una semi-scelta: non sapendo bene quali sarebbero state le conseguenze, la coppia primigenia ha scelto di mangiare il frutto dell’Albero del Bene e del Male. La coppia primigenia ha scelto di affrontare anche il Male. Il Male, la lontananza dal Signore, il ciclo vita-morte. Se Adamo ed Eva non avessero scelto di non obbedire, la realtà in cui il Signore li aveva adagiati sarebbe stato il Gan Eden, l’assenza di morte. Secondo me è in questa dimensione psicologica a-temporale (eterna, nonostante la mortalità degli umani) che si saldano senso di colpa e dolore della perdita. La perdita fa male nella misura in cui il nostro pensiero va a cercare il punto in cui "si poteva evitare": dove ho sbagliato? Cosa non ho fatto per evitare a me stesso questo dolore? Ho conosciuto molto da vicino persone che, dopo la morte di un caro per malattia, rimaneva per mesi, per anni, devastate dal senso di colpa di non aver insistito per far fare determinate analisi cliniche, non aver proposto determinati interventi chirurgici, non aver insistito per cambiare medico o struttura sanitarie, ecc. Gente intelligente e colta, ma devastata dal senso di colpa e di impotenza di fronte a una perdita che non si è saputo/potuto evitare.






6. La protagonista di un altro dei racconti di "La perla nel tempio", Giulia, raccontando come è nata in lei l’ossessione per la sua dentatura, ci parla di un sogno di gioventù che è quello di andare in Israele a visitare un kibbutz. Che cosa rappresenta per una persona dei tempi nostri, che vive in una città multietnica e cosmopolita come è Roma, il viaggio di riscoperta della tradizione con la quale cercherà invano di ricongiungersi?


5. Che ruolo dovrebbe avere secondo lei il giornalista in una società in cui, come lei stessa dice, non solo bisogna avere delle buone idee ma anche la forza di imporle?


Sono cresciuta con il mito del Giornalismo. Da ragazzina, i giornalisti erano i miei eroi. Parlo dei tempi di Epoca, l’Europeo, parlo di Oriana Fallaci e di Luca Goldoni. Di Arrigo Levi e di Alberto Ronchey. E di infinti altri che hanno fatto veramente parte della mia vita, della mia formazione, al pari dei grandi scrittori. Parlo di quando il giornalismo italiano era considerato tra i migliori del mondo, forse il migliore in Europa. Credo che la professione del giornalista debba imporre l’idea che l’informazione la può fare (la fa) solo chi impone, a sua volta, a se stesso l’assoluto rispetto per chi legge. Il giornalista ha la responsabilità di scegliere quali fatti offrire al lettore per permettere al lettore di farsi un’opinione in merito ai fatti e non per impedirglielo. Ossia: il giornalista dove rifiutarsi di truffare il lettore tramite un’informazione "sponsorizzata" e deformata. Quello che lo scrittore si può consentire (portare il lettore lontano dalla realtà quotidiana, in una realtà creata per lui dallo scrittore) il giornalista non può. Ritengo che il giornalismo, in Italia, stia toccando il punto più basso della sua storia perché è esclusivamente manipolatorio e gravemente omissivo. E’ inevitabile che, facendo giornalismo, si accumulino infinite nozioni sulle cose che non funzionano, sui meccanismi che portano a gravi omissioni e disservizi, sulle persone "che contano" e sul loto modo di gestire la Cosa Pubblica o gli affari. E’ inevitabile che una profonda conoscenza dei meccanismi della realtà producano, nei giornalisti che sono anche persone di spessore, la non acquiescenza e quindi la voglia di suggerire dei correttivi, di aggiungere mezzi di informazione corretta ai mezzi che già ci sono, di fornire anche il lettore degli strumenti per cambiare la realtà, una volta che gliene vien data un’immagine onesta, e i lettore decide che la realtà deve cambiare.

Per Giulia, la dentatura è il legame con il padre, il padre che voleva che lei avesse una dentatura perfetta (che lei fosse perfetta: ma sulla totalità di Giulia il padre non poteva decidere al 100 per cento, invece sulla sua dentatura sì) e aveva speso tanto tempo e denaro per raggiunger questo scopo. Quando il padre si ammala i denti di Giulia si ammalano, quando il padre muore i denti di Giulia muoiono e cadono. A quel punto Giulia recupera un rapporto fondamentale: il medico che sceglie è il suo migliore amico, incontrato quando aveva tanti sogni (tornare all’ebraismo, crearsi una famiglia ebraica, andare in Israele a vedere come è fatto un kibbutz, ma soprattutto a vedere con i propri occhi il riscatto del popolo ebraico che ha rischiato l’annientamento). L’amico aveva avuto, a suo tempo, un ruolo fondamentale nella realizzazione del sogno di Giulia di andare a vedere com’è organizzato un kibbutz. L’amico è il segno che Giulia può ancora avere dei sogni e la speranza di realizzarli. E quindi, il legame riannodato col suo dentista e medico/miglior amico ed ebreo è esattamente il simbolo della speranza di Giulia che i suoi sogni possano ancora avverarsi. Roma e Israele hanno un legame storico importantissimo: e questo legame è un altro dei punti fondamentali della mia formazione. E’ un legame politico ed è l’influenza che il Risorgimento (e in particolare il pensiero di Giuseppe Mazzini) ha avuto sul Sionismo politico. Quanto al cosmopolitismo della Roma dei nostri giorni, bisogna dire che Israele è un luogo antichissimo e nuovissimo, di cui nessuno, tranne quelli che ci sono stati, sa niente. In Israele vestigia millenarie convivono con i grattacieli e la tecnologia più avanzata, è un luogo in cui c’è il massimo del cosmopolitismo possibile, in cui si sono riversati gli ebrei di ogni nazionalità e provenienza: europei (italiani, francesi, belgi, inglesi, tedeschi, svizzeri, rumeni, ecc.), americani (canadesi, venezuelani, brasiliani, argentini) turchi, russi, nordafricani (algerini, tunisini, marocchini, libici, siriani, libanesi), yemeniti e iraniani, africani (eritrei, etiopi), giapponesi, indiani, australiani. Nelle diverse epoche, alcuni per scelta, altri travolti dagli eventi, fuggiti dalle persecuzioni, dall’essenza di libertà religiosa, dal rischio di restare schiacciati dalle guerre civili. In Israele ci sono bambini che parlano 9 lingue: quelle di ciascun nonno più l’ebraico. Non c’è nulla di più cosmopolita e complesso di Israele, in tutti i sensi. Israele è nato così, non è diventato così. Mentre Roma, quando io ero ragazzina, era solo dei romani, adesso è il trionfo dei Palazzi del Potere e delle auto-blu. Roma non è più una città, è un problema amministrativo. E’ molto difficile, per una persona della mia età, accettare quello che è diventa Roma. Infatti, penso che appena possibile me ne andrò a vivere in campagna.



7. Lei ci parla della cucina ebraico-romanesca che, come la lingua giudaico-romanesca riscoperta di recente in ambito teatrale, sembra riscuotere nuovi successi di gusto. Siamo nell’era che il sociologo ebreo-polacco Zygmunt Bauman aveva chiamato della "società liquida", dove non ci sono più regole forti e in cui tutti i rapporti, per primi quelli di lavoro, diventano precari e perfino la famiglia fa fatica a sopravvivere vittima com’è di impulsi allocentrici. E tuttavia abbiamo veramente bisogno di radici stabili?

Non credo che abbiamo bisogno di radici stabili in senso limitativo, tutt’altro: abbiamo assolutamente bisogno di esser aperti e disponibili al cambiamento, alle esperienze, agli altri, a ciò che non conosciamo. Quello di cui abbiamo bisogno è avere il coraggio di scegliere fino in fondo quello che vogliamo essere, non accettare identità imposte; e, soprattutto, dobbiamo difendere quello che siamo. Può sembrare una contraddizione, e forse in termini puramente logici lo è, ma le due cose devono convivere: apertura e identità devono stare insieme, anche perché non c’è l’una senza l’altra.


8. Quale empatia può esistere per l’uomo nei confronti dei propri simili quando subisce una perdita a causa di altri uomini o di un sistema fuori della portata del singolo individuo, come succede oggi, per esempio, con il mercato finanziario?

Quello che sta succedendo a causa del sistema finanziario lo trovo di una gravità spaventosa. E’ disumano, non trovo altre parole. Non ci sono scuse per chi ha messo in piedi un sistema violento, rapace, che espropria ricchezza ai cittadini per sopravvivere dopo che ha fallito. E’ terribile quello che sta succedendo. E’ un incubo a occhi aperti. Ci dicono che tutto questo avviene perché gli Stati hanno venduto i loro debiti. Ma, dico io: se uno Stato vende i propri debiti (e deve dimostrare ai cittadini che loro gli hanno dato consapevolmente il permesso di farlo – e qui ci riallacciamo la problema dell’informazione che non informa - ) , mi pare ovvio che si metti nelle mani di chi li compra. Allora, un conto è se dai a chi ha comperato parte del tuo debito sovrano solo il potere sul valore economico dello stesso debito, un conto è se attraverso il potere sul valore economico del debito dai ai creditori anche il potere di decidere la politica del tuo Paese e della vita dei suoi cittadini! Io ho sempre fatto politica attiva, a parte una pausa all’epoca in cui vivevo all’estero e le mie figlie erano molto piccole. Ho sempre militato in un’area laica di centro, assolutamente favorevole all’Unione Europea come aspirazione, ma, grazie al fatto di annoverare tra le proprie fila dei bravi economista, da sempre, da parte dell’area politica alla quale appartengo, è partito forte e chiaro il messaggio che l’Unione Europea non poteva vivere di sola unità monetaria: doveva assortamente avere un Politica monetaria comune. Invece, abbiamo avuto l’Europa dei Banchieri, con questi vecchi tromboni abbarbicati alla "stabilità", ai "tassi", ai mezzi punti in più o in meno dei tassi, vecchi tromboni che hanno un potere immenso senza che nessuno di noi li abbi mai votati. Non sa cosa augurarmi perché non è nel mio carattere auspicare che si torni indietro, buttando anni a miliardi. Ma certo, siamo caduti in mani pessime. Ci serva da lezione per il futuro.

© Intervista realizzata da Stefano di Stasio il 23 e 27 Novembre 2011. Pubblicata su:
http://www.paroleefotografie.blogspot.com/



SCHEDA DEL LIBRO
Titolo: La perla nel Tempio
Autore: Alessandra Pontecorvo
Editore: GDS Edizioni
Data di Pubblicazione: Marzo 2011
Collana: Miscellanea
ISBN: 9788896961803
Pagine: 174
Formato - Prezzo: Brossura - 14,00 Euro

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