Cerca nel blog

sabato 9 aprile 2016

RèG 6. I SETTE CAVALIERI di LEMBERG



testo e foto di © 2016 Stefano di Stasio


C’era una volta.
Erano quasi tutte donne. Arrivavano la domenica mattina con dei furgoni verso le otto. La targa bianca e gialla, Ucraina. Sul parabrezza del furgone un cartone con scritta a mano con il carboncino la città di provenienza. Kiev, L’viv.
Arrivavano portando cartoni legati con lo spago, poche cose semplici vestiti, a volte una valigia. Sempre casse di birra venivano scaricate dai furgoni.
Alcune più belle con pochissimo bagaglio. Avevano già il telefonino. Appena arrivate salivano in una Mercedes bianca guidate da figuri sulla sessantina e si appartavano nei campi vicini. Cacciare moneta vedere cammello. I protettori volevano un assaggio subito della loro merce.
Altre più anziane sopra i cinquanta, piccole di statura e faccia da contadina sembravano spaesate e si guardavano attorno. Trovavano un po’ di casa, qualcuno aveva improvvisato una bancarella di salsicce.
Gli autisti stanchi bevevano e fumavano parlando fra loro. Fra quattro, cinque ore avrebbero dovuto invertire la rotta. Caserta-Kiev, Caserta-Lviv, Caserta-Karkiv, Caserta-Ternopyl.

Qualcuna di loro era veramente imponente e si avviava subito giù per la strada che portava alla città. Parlavano fra loro, sapevano dove andare avevano già lavoro. Molte erano dell’Ukraina dell’est e parlavano Russo: «holodny sigodnia, ХОЛОДНЫЙ  СЕГОДНЯ, freddo stamattina; rabota horasciò, РАБОТА ХОРOШО, lavoro tutto bene.».

Molte erano sfacciate e decise a tutto venute nel west dell’impero a cercare fortuna senza scrupoli. Si vedeva che erano decise. Altre molto meno, avevano paura. Il viaggio lo avevano comprato prendendo soldi in prestito da delinquenti. Casomai avevano la vita dei figli come ipoteca, laggiù nelle loro case in Ucraina. Venivano perché come dice la mia amica Olga, in Ucraina uomini morire giovani. Spesso alcolizzati o suicidi.

Ne avevo conosciuta una sulla cinquantina, una faccia pulita. Era piccola nell’aspetto, si chiamava Maria. Maria era vedova, aveva due figli ormai grandi e niente più da fare al paese suo, un villaggio vicino a L’viv, vicino ad un bosco.
Veniva in Italia per rifarsi una vita. Aveva dato il suo passaporto ad una caporale polacca che gestiva il collocamento. Glielo avrebbe restituito pagando la sua intermediazione con i primi tre stipendi.
La caporale le aveva trovato un lavoro presso un anziano signore e la sorella, entrambi non sposati entrambi di sulla settantina, ricchi di famiglia e ignoranti di vocazione. Erano ancora autosufficienti ma non avevano mai fatto le faccende di casa. Prima assumevano un’Italiana ad ore. Poi avevano deciso di tagliare le spese. Il signore viveva in un appartamento del centro e la sorella in quello al piano di sotto dello stesso stabile. Le case erano grandi e c’erano un sacco di cose da fare. Avevano deciso di pretendere uno sconto speciale. La nuova domestica avrebbe tenuto in ordine entrambe le case, con un solo stipendio. Cercavano una schiava. L’avevano detto alla caporale. Vogliamo una polacca docile che non faccia storie e non pretenda. Loro chiamavano polacche tutte le donne dell’Est.
La caporale aveva risposto che ci voleva una clandestina, perché si sa che le fuorilegge non esistono e se non esistono non possono andare dai Carabinieri.
Quindi avevano assunta Maria quando era arrivata abusivamente senza uno straccio di contratto. La caporale aveva mostrato loro il passaporto, poi se lo era rimesso in tasca.
L’avevano istruita bene. Non devi mai rispondere o usare il telefono. Oltre che taccagni, il veto serviva a evitare brutte sorprese, per esempio indagini delle forze dell’ordine o richieste di aiuto e conforto.

Al veto era seguito il lavoro, massacrante. E le angherie. Una volta Maria aveva dimenticato un abito nel salotto. La rappresaglia della zitella era stata decisa. Via dalla finestra nel cortile di casa tutte le cose di Maria, anche lo spazzolino e la foto dei figli e dei nipoti che teneva sul comodino per ricordarsi di dove veniva.
Il fratello dell’anziana maliarda non era particolarmente cattivo ma lasciava fare alla sorella che, d’altra parte, aveva sempre comandato in quella casa. Lui aveva poca dimestichezza con le donne e le temeva. Per questo non si era sposato.
La domenica la lasciavano uscire al pomeriggio ma le assegnavano già qualcosa da fare per le otto. Cosi’, tanto per ricordarle che i padroni erano loro.

Maria la vedevo perché andavo a pagare l’affitto di casa mia. I proprietari erano la signora di mezz’età e il signore.
Quando andavo era gentilissima, io le chiedevo con parole di russo raffazzonato:
«Kak dielà? КАК  ДЕЛА’ ? come stai ? »

Lei rispondeva, sorridendo: «horasciò ХОРОШО’!».
«Ti viejliviji, bolscioi horasciò ТЫ  ВЕЖЛИВЫЙ,  БОЛЬШОЕ  СПАСИБО»,  sei gentile, grazie mille. E non si lamentava mai.

Passarono i mesi velocissimi quell’anno. L’inverno era stato caldo e l’estate africana si avvicinava a grandi passi.
All’inizio del mese di maggio andai a pagare l’affitto. Il signore e la signora non c’erano.
Mi aprì la porta Maria. Era pallida come un cencio e aveva gli occhi lucidi.
Come stai Maria ?
«Non troppo bene, nje ocin horasciò НЕ ОЧЕНЬ  ХОРОШО’…».
Mi raccontò che era stata male aveva un dolore all’utero. Diceva che ce l’aveva sempre da un po’ di giorni. Aveva chiesto alla signora di essere visitata da un medico. Il rifiuto era stato secco. Lei non esisteva, perciò non poteva ammalarsi. Aveva avuto delle emorragie alle quali aveva posto dei rimedi rurali delle sue parti, ghiaccio e decotto di camomilla. Lei aveva bisogno di lavorare e aveva un terrore perso di perdere il lavoro. Non avrebbe saputo dove andare. La caporale aveva voluto altri soldi.

La signora entrò dalla porta all’improvviso e mi sorprese che parlavo con Maria. Fece una smorfia.
Poi mascherò la sua ira, con un sorriso di convenienza. Sapeva che le portavo i miei soldi e li pretendeva. Pagai e me ne andai con la ricevuta.

Quella sera ripensavo alla storia. Date le premesse una denuncia non avrebbe risolto la situazione. La legge non è la giustizia, nessun giudice può imporre a un datore di lavoro di non licenziare.

La mia immaginazione corse via per il cielo stellato. C’era una luna bellissima, quasi piena. Quella notte sognai.

Nel sogno vidi Maria che soffriva in silenzio, veniva umiliata quasi in continuazione la’ in quella casa alla periferia della città. Poi alzai lo sguardo come un falco che si libra con una corrente ascensionale e vidi pi lontano. Non mettevo bene a fuoco ma in direzione della pianura mi sembrava di vedere una nuvola di polvere.

Sforzavo lo sguardo e contemporaneamente tendevo le orecchie per percepire qualche rumore. Niente, troppo lontana la nuvola. Ma si stava avvicinando e diventava sempre più grande. Vedevo qualcosa nella polvere Quando furono in corrispondenza della collina, di la’ dalla quale sorge la città, cominciai a distinguere delle sagome scure e si sentiva qualcosa. Si c’era del rumore, ma era ancora confuso. Poi sempre più chiaro. Erano cavalli al galoppo. Si vedevano bene ora. Scuri, enormi e sopra qualcuno li cavalcava. Poi c’era una macchia biancastra nel gruppo.

Si erano fatti vicini. Le distanze non si riuscivano a distinguere bene, ma il rumore degli zoccoli ora era forte. Sembravano tantissimi. I contati erano sette cavalli scuri e uno bianco. Mi sono sempre piaciuti i cavalli. Gli scuri sembravano Irlandesi, quello bianco un Arabo. Erano bellissimi. Sui cavalli, dapprima un po’ buffi delle persone vestite strane. I vestiti luccicavano al sole. Ma come era possibile. Non pioveva da settimane.

Poi li vidi e ne rimasi un po’ intimorito. Erano cavalieri in arme, con le maglie di ferro e la spada. Le chiome folte, portavano la barba. Facevano paura. Voltarono vicino al cimitero e, strizzando gli occhi, riuscii a distinguerli, S'indirizzano verso la casa del signore e della signora. Mi chiesi, perché ?
Volai più vicino, per un falco è un gioco da ragazzi volteggiare a tutte le quote, quasi senza battere le ali.

E così vidi. Erano venuti a prendere Maria. Era uscita contenta, felice nel sole. Fuori dalla casa delle sofferenze e delle mortificazioni. Era salita, issata di peso su uno degli Irlandesi. Aveva scambiato qualche battuta con i cavalieri in arme.

Poi si erano dati un cenno e via al galoppo. Maria tornava a Lemberg, finalmente. Come una principessa, scortata dal suo maestro d’arme e dai suoi cavalieri più valorosi.

® Riproduzione riservata. Contenuto soggetto a copyright 2016 di Stefano di Stasio. La riproduzione, anche parziale, deve essere autorizzata per iscritto dall’autore



Foto di © 1994 Stefano di Stasio - Kathmandu, Pasciuphàtinat: Il tempio degli esseri viventi


PROPOSTE MUSICALI per accompagnare la lettura del racconto:

9:54 minuti


Nessun commento:

Posta un commento