RèG 6. I SETTE CAVALIERI di LEMBERG
testo e foto di © 2016 Stefano di Stasio
C’era una
volta.
Erano quasi
tutte donne. Arrivavano la domenica mattina con dei furgoni verso le otto. La
targa bianca e gialla, Ucraina. Sul parabrezza del furgone un cartone con scritta
a mano con il carboncino la città di provenienza. Kiev, L’viv.
Arrivavano
portando cartoni legati con lo spago, poche cose semplici vestiti, a volte una
valigia. Sempre casse di birra venivano scaricate dai furgoni.
Alcune più
belle con pochissimo bagaglio. Avevano già il telefonino. Appena arrivate
salivano in una Mercedes bianca guidate da figuri sulla sessantina e si
appartavano nei campi vicini. Cacciare moneta vedere cammello. I protettori
volevano un assaggio subito della loro merce.
Altre più anziane
sopra i cinquanta, piccole di statura e faccia da contadina sembravano spaesate
e si guardavano attorno. Trovavano un po’ di casa, qualcuno aveva improvvisato
una bancarella di salsicce.
Gli autisti
stanchi bevevano e fumavano parlando fra loro. Fra quattro, cinque ore
avrebbero dovuto invertire la rotta. Caserta-Kiev, Caserta-Lviv,
Caserta-Karkiv, Caserta-Ternopyl.
Qualcuna di
loro era veramente imponente e si avviava subito giù per la strada che portava
alla città. Parlavano fra loro, sapevano dove andare avevano già lavoro. Molte
erano dell’Ukraina dell’est e parlavano Russo: «holodny sigodnia, ХОЛОДНЫЙ СЕГОДНЯ, freddo stamattina; rabota horasciò,
РАБОТА ХОРOШО, lavoro tutto bene.».
Molte erano
sfacciate e decise a tutto venute nel west dell’impero a cercare fortuna senza
scrupoli. Si vedeva che erano decise. Altre molto meno, avevano paura. Il
viaggio lo avevano comprato prendendo soldi in prestito da delinquenti. Casomai
avevano la vita dei figli come ipoteca, laggiù nelle loro case in Ucraina.
Venivano perché come dice la mia amica Olga, in Ucraina uomini morire
giovani. Spesso alcolizzati o suicidi.
Ne avevo
conosciuta una sulla cinquantina, una faccia pulita. Era piccola nell’aspetto,
si chiamava Maria. Maria era vedova, aveva due figli ormai grandi e niente più
da fare al paese suo, un villaggio vicino a L’viv, vicino ad un bosco.
Veniva in
Italia per rifarsi una vita. Aveva dato il suo passaporto ad una caporale
polacca che gestiva il collocamento. Glielo avrebbe restituito pagando la sua
intermediazione con i primi tre stipendi.
La caporale
le aveva trovato un lavoro presso un anziano signore e la sorella, entrambi non
sposati entrambi di sulla settantina, ricchi di famiglia e ignoranti di
vocazione. Erano ancora autosufficienti ma non avevano mai fatto le faccende di
casa. Prima assumevano un’Italiana ad ore. Poi avevano deciso di tagliare le
spese. Il signore viveva in un appartamento del centro e la sorella in quello
al piano di sotto dello stesso stabile. Le case erano grandi e c’erano un sacco
di cose da fare. Avevano deciso di pretendere uno sconto speciale. La nuova
domestica avrebbe tenuto in ordine entrambe le case, con un solo stipendio.
Cercavano una schiava. L’avevano detto alla caporale. Vogliamo una polacca
docile che non faccia storie e non pretenda. Loro chiamavano polacche tutte le donne dell’Est.
La caporale
aveva risposto che ci voleva una clandestina, perché si sa che le fuorilegge
non esistono e se non esistono non possono andare dai Carabinieri.
Quindi
avevano assunta Maria quando era arrivata abusivamente senza uno straccio di
contratto. La caporale aveva mostrato loro il passaporto, poi se lo era rimesso
in tasca.
L’avevano
istruita bene. Non devi mai rispondere o usare il telefono. Oltre che taccagni,
il veto serviva a evitare brutte sorprese, per esempio indagini delle forze
dell’ordine o richieste di aiuto e conforto.
Al veto era
seguito il lavoro, massacrante. E le angherie. Una volta Maria aveva
dimenticato un abito nel salotto. La rappresaglia della zitella era stata
decisa. Via dalla finestra nel cortile di casa tutte le cose di Maria, anche lo
spazzolino e la foto dei figli e dei nipoti che teneva sul comodino per
ricordarsi di dove veniva.
Il fratello
dell’anziana maliarda non era particolarmente cattivo ma lasciava fare alla
sorella che, d’altra parte, aveva sempre comandato in quella casa. Lui aveva
poca dimestichezza con le donne e le temeva. Per questo non si era sposato.
La domenica
la lasciavano uscire al pomeriggio ma le assegnavano già qualcosa da fare per
le otto. Cosi’, tanto per ricordarle che i padroni erano loro.
Maria la
vedevo perché andavo a pagare l’affitto di casa mia. I proprietari erano la
signora di mezz’età e il signore.
Quando andavo
era gentilissima, io le chiedevo con parole di russo raffazzonato:
«Kak dielà? КАК ДЕЛА’ ? come stai ? »
Lei
rispondeva, sorridendo: «horasciò ХОРОШО’!».
«Ti
viejliviji, bolscioi horasciò ТЫ
ВЕЖЛИВЫЙ, БОЛЬШОЕ СПАСИБО»,
sei gentile, grazie mille. E non si lamentava mai.
Passarono i
mesi velocissimi quell’anno. L’inverno era stato caldo e l’estate africana si
avvicinava a grandi passi.
All’inizio
del mese di maggio andai a pagare l’affitto. Il signore e la signora non
c’erano.
Mi aprì la
porta Maria. Era pallida come un cencio e aveva gli occhi lucidi.
Come stai
Maria ?
«Non troppo
bene, nje ocin horasciò НЕ ОЧЕНЬ
ХОРОШО’…».
Mi raccontò che era stata male aveva un dolore all’utero. Diceva che
ce l’aveva sempre da un po’ di giorni. Aveva chiesto alla signora di essere
visitata da un medico. Il rifiuto era stato secco. Lei non esisteva, perciò non
poteva ammalarsi. Aveva avuto delle emorragie alle quali aveva posto dei rimedi
rurali delle sue parti, ghiaccio e decotto di camomilla. Lei aveva bisogno di
lavorare e aveva un terrore perso di perdere il lavoro. Non avrebbe saputo dove
andare. La caporale aveva voluto altri soldi.
La signora
entrò dalla porta all’improvviso e mi sorprese che parlavo con Maria. Fece una
smorfia.
Poi mascherò
la sua ira, con un sorriso di convenienza. Sapeva che le portavo i miei soldi e
li pretendeva. Pagai e me ne andai con la ricevuta.
Quella sera
ripensavo alla storia. Date le premesse una denuncia non avrebbe risolto la
situazione. La legge non è la giustizia, nessun giudice può imporre a un datore
di lavoro di non licenziare.
La mia
immaginazione corse via per il cielo stellato. C’era una luna bellissima, quasi
piena. Quella notte sognai.
Nel sogno
vidi Maria che soffriva in silenzio, veniva umiliata quasi in continuazione la’
in quella casa alla periferia della città. Poi alzai lo sguardo come un falco
che si libra con una corrente ascensionale e vidi pi lontano. Non mettevo bene
a fuoco ma in direzione della pianura mi sembrava di vedere una nuvola di
polvere.
Sforzavo lo
sguardo e contemporaneamente tendevo le orecchie per percepire qualche rumore.
Niente, troppo lontana la nuvola. Ma si stava avvicinando e diventava sempre
più grande. Vedevo qualcosa nella polvere Quando furono in corrispondenza della
collina, di la’ dalla quale sorge la città, cominciai a distinguere delle
sagome scure e si sentiva qualcosa. Si c’era del rumore, ma era ancora confuso.
Poi sempre più chiaro. Erano cavalli al galoppo. Si vedevano bene ora. Scuri,
enormi e sopra qualcuno li cavalcava. Poi c’era una macchia biancastra nel
gruppo.
Si
erano fatti vicini. Le distanze non si riuscivano a distinguere bene, ma il
rumore degli zoccoli ora era forte. Sembravano tantissimi. I contati erano
sette cavalli scuri e uno bianco. Mi sono sempre piaciuti i cavalli. Gli scuri
sembravano Irlandesi, quello bianco un Arabo. Erano bellissimi. Sui cavalli,
dapprima un po’ buffi delle persone vestite strane. I vestiti luccicavano al
sole. Ma come era possibile. Non pioveva da settimane.
Poi li vidi e
ne rimasi un po’ intimorito. Erano cavalieri in arme, con le maglie di ferro e
la spada. Le chiome folte, portavano la barba. Facevano paura. Voltarono vicino
al cimitero e, strizzando gli occhi, riuscii a distinguerli, S'indirizzano verso la casa del signore e della
signora. Mi chiesi, perché ?
Volai più
vicino, per un falco è un gioco da ragazzi volteggiare a tutte le quote, quasi
senza battere le ali.
E così vidi.
Erano venuti a prendere Maria. Era uscita contenta, felice nel sole. Fuori
dalla casa delle sofferenze e delle mortificazioni. Era salita, issata di peso
su uno degli Irlandesi. Aveva scambiato qualche battuta con i cavalieri in
arme.
Poi si erano
dati un cenno e via al galoppo. Maria tornava a Lemberg, finalmente. Come una
principessa, scortata dal suo maestro d’arme e dai suoi cavalieri più valorosi.
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Foto di © 1994 Stefano di Stasio - Kathmandu, Pasciuphàtinat: Il tempio degli esseri viventi
PROPOSTE MUSICALI per accompagnare la lettura del racconto:
9:54 minuti
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