RèG 2. TUMÀN
testo e foto di © 2016 Stefano di Stasio
Tumàn.
Nebbia. Stava appollaiato su un abete rosso della foresta. Era l’alba di un
giorno freddo. Dall’alto poteva vedere i fasci di luce obliqua che diffondevano
fra i banchi di minuscole goccioline. Abbagliavano la vista. Sua madre l’aveva
chiamato Tumàn perché quando si erano aperti i suoi occhi a un mese dalla
nascita era rimasta colpita da un velo sottile biancastro che copriva l’iride a
losanga di colore celeste. Adesso intorno a lui il bosco ancora taceva avvolto
dall’ovatta.
L’autunno
volgeva al termine, presto sarebbe caduta la neve. In lontananza udì dei suoni
bassi. Provenivano dalla terra. Erano i daini che cominciavano a brucare l’erba
delle radure. Era l’ora di cominciare la caccia. Saltò giù dall’abete, per un
attimo sembrò volteggiare nell’aria e rimanere sospeso sullo strato di nebbia.
L’impatto col terreno non produsse nessun rumore percepibile. Cominciò ad
attraversare la foresta in direzione della preda. Le orecchie si muovevano
girando a semicerchio. Stava in guardia per i cercatori di funghi. Spesso
portavano con se il fucile. Tumàn procedette guardingo evitando le piste
battute e i terreni non coperti di alberi. Arrivò in prossimità della radura.
Di la’ dalla nebbia, coperto dai cespugli, scorse quattro piccoli daini, un
maschio e tre femmine. Strappavano l’erba a piccoli morsi. Studio’ il terreno e scelse la preda, la
femmina più giovane. Muovendo le sue zampe larghe e coperte di pelo descrisse
un movimento a forma di elle per raggiungere l’albero al confine settentrionale
della radura. Dopo aver brucato l’erba i daini si sarebbero spostato in cerca
di acqua. Tumàn sapeva che a nord dietro quella collina a forma di panettone,
c’era una sorgente. Anche i daini lo sapevano. Con un balzo fulmineo raggiunse
i primi rami del grosso ippocastano. Scelse il ramo più sporgente. Lo percorse
quasi fino all’estremità. Si accovacciò e attese. I daini terminarono il pasto.
Il maschio ebbe qualche esitazione, poi si mise in marcia verso la sorgente.
Non c’era niente da temere. Il sole stava diradando velocemente la nebbia. I
daini potevano vedere lontano. Sfilarono ai margini della radura mentre le
residue gocce d’acqua nell’aria facevano una specie di aura attorno alle loro
sagome. Come un fulmine Tumàn si lanciò dal ramo sulla preda. L’addentò al
collo con i lunghi canini. Una scena grandiosa di vita e di morte nella luce
abbagliante del riverbero del sole sull’acqua del prato. Per il giovane daino
non ci fu il tempo di reagire. Il cacciatore era venuto dall’alto, al di sopra
degli strati di nebbia, dove mai un daino avrebbe annusato l’aria per avvertire
il pericolo. Gli altri daini fuggirono via. Per Tumàn questa era solo la prima
parte del suo lavoro. Dopo aver finito la preda, doveva scegliere un posto per
nasconderla. Sarebbe tornato a sfamarsi ogni giorno, con calma. Trascinò il
daino per un centinaio di metri. C’erano tre betulle che si intrecciavano
vicino a una piccola scarpata. Quello era il posto buono per fare da dispensa.
Facendo forza sui suoi possenti arti posteriori, il cacciatore prima balzò, poi
con i denti sollevò e tirò. Poi di
nuovo, saltò e di nuovo tirò per raggiungere quella specie di piattaforma
naturale. Era soddisfatto, sistemo’ il daino ben fermo. Fece colazione con la
carne di un cosciotto. Si riposò. Aspettò finché il sole si fece troppo caldo
per lui. Allora strappo’ delle frasche dagli alberi e copri’ con estrema
accuratezza la preda. Sarebbe tornato la notte successiva.
Un
balzo e sparì nella zona d’ombra della macchia.
Trascorse
il giorno. Il sole cadde con enfasi dietro la collina a ovest, quella a forma
di pino. Dalla direzione opposta del cielo comparve sbiadito uno spicchio di
luna. Tumàn aveva passato il giorno a sonnecchiare. Fra i canti degli uccelli
che cercano compagnia prima di dormire,
l’oscurità calò lentamente sulla foresta e sui suoi abitanti facendo svanire
piano piano i contorni degli arbusti e dei tronchi. Si avvicinava l’ora di
mettersi in marcia. I suoi occhi vedevano meglio al buio.
Si
leccò la pelliccia. Annusò l’aria. Drizzò le orecchie con i ciuffi e si mise in
marcia, camminando sul nulla senza rumore. Inaspettato sentì l’odore della
femmina. Si chiese chi fosse, nel suo territorio ce n’erano molte. Incuriosito
seguì la scia che lasciava quell’inconfondibile estro. La raggiunse. Entrambi
emisero gravi miagolii. Si chiamava Ira. Non l’aveva mai vista. Era molto
bella. Aveva da poco lasciato i due figli. Quando erano loro cresciuti i canini
dopo dieci mesi dal parto, aveva loro insegnato a cacciare. Poi era andata via,
era tempo di accoppiarsi di nuovo.
La
notte avvolse la foresta. Si udivano ogni tanto animali notturni. Rapaci. Fra
ringhi sommessi, si accese l’amore di Tumàn e Ira. Trascorse così il tempo fino
all’alba.
La
bruma ancora calava sul bosco. Non tanto fitta come i giorni precedenti. Gli
amanti ebbero fame. Si mossero dal loro giaciglio. Tumàn voleva condurre Ira
alla sua dispensa sugli alberi di betulla. Attraversarono la radura e si
diressero verso la collina là dove c’era la scarpata. Stamattina non
incontrarono nessun daino. Anche il corvo che di solito volteggiava in cerca di
cibo non c’era. Salirono sulle betulle. Tumàn scostò le frasche che aveva
disposto per nascondere il daino e offrì a Ira la sua cacciagione. D’un tratto
però avvertì uno strano odore, aspro e penetrante, non era di un animale del
bosco. Ma era tardi. D’improvviso una rete calò dall’alto e li intrappolò.
Cominciarono a dibattersi emettendo grida acute. Di più la rete avvinghiò la
sua preda. Quando il sole fu più alto avvertirono da lontano l’abbaiare dei
cani. Di lì a poco poterono vedere degli uomini con la divisa grigio chiara che
si arrampicarono sulla collina. Erano le guardie forestali incaricate di
sorvegliare quella regione vicina al confine fra cinque stati, dove le foreste
dei Carpazi sono più fitte. Tumàn e Ira guardarono con ostilità le guardie che
esprimevano la loro soddisfazione. Poi furono fatti entrare in grosse scatole
di legno e trasportate a spalla fino alla strada. La puzza dell’aria era per
loro insopportabile. Come facevano quelle persone a non sentire quel tanfo
nauseabondo e a continuare a far finta di nulla? Le gabbie di legno furono
issate su un vecchio camion. Dopo un giorno di viaggio su strade sgangherate
arrivarono in un paese dove la puzza odori era più sopportabile. Era fra le
colline e la foresta. L’aria aveva un odore salmastro. Truskavetz. Il villaggio
del sale. Tumàn e Ira non sapevano che era un centro rinomato da secoli per le
cure termali. Così come non sapevano che c’erano una mezza dozzina di palazzoni
dove si praticavano cure di ogni tipo che erano chiamati Sanatori. In ogni
sanatorio potevano alloggiare fino a mille persone. Era un posto di vacanza
premio per i lavoratori di tutta l’Unione delle Repubbliche Socialiste
Sovietiche. Man mano che il camion procedeva nel villaggio osservarono dei
grossi edifici bigi a cinque o a nove piani. Fra di essi scappavano e giocavano
folle di bambini. L’autista del camion si fermò a comprare le sigarette.
Scambiò qualche parola con i passanti mentre fumava soddisfatto del viaggio. In
men che non si dica il camion fu preso d’assalto dai bambini che cercavano di
vedere fra le fessure delle scatole di legno.
Poi il camion ripartì e si fermò davanti a un grosso Sanatorio. Venne un
uomo in camice bianco con due grosse siringhe in mano. Prima Tumàn poi Ira.
Furono addormentati. Si risvegliarono dopo un tempo indefinibile. Il sole che
tramontava sulle colline gettava intorno a loro un’ombra lunga fatta a piccoli
quadri.
Erano
stati sistemati in una grossa gabbia nel parco del sanatorio “Carpazi”.
All’interno erano stati disposti degli alberi scheletriti e una tana finta.
Tumàn cominciò ad esplorare l’ambiente. Non c’erano vie di fuga. La rete era
solida. Sul tetto era stata saldata una tettoia. Alla gabbia si accedeva
attraverso una cabina fatta di rete di ferro con una doppia porta. Dall’esterno
si accedeva all’interno del gabbiotto. Da qui si apriva una porta all’interno
della loro prigione. Le porte erano serrate. Niente da fare.
Per
tutta la serata Tumàn e Ira si accoccolarono sullo scheletro di pianta e
dovettero sopportare i flash dei visitatori.
“Ris. Lynx
lynx carpathicus. Lince dei Carpazi. Si stima che siano presenti 2800 esemplari su uno
spazio compreso fra Ucraina, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria e Romania.”
Era scritto in bella mostra su un cartello davanti alla gabbia.
Ogni
tanto Tumàn leccava sul muso la compagna su ciuffi di peli ai lati del viso.
Cercava di consolarla.
L’indomani
conobbero i loro guardiani. Uno era una donna, si chiamava Orissa. L’altro era
un uomo, Stepan.Orissa e Stepan erano molto diversi. Tanto odiosa e
precisa la prima, quanto simpatico e approssimativo il secondo. Forse era
l’alcol che l’uomo beveva quasi in continuazione. Portavano dei pezzi di carne
quasi putrida. La donna si introduceva attraverso la porta esterna all’interno
della cabina di transito. Poi Stepan chiudeva la porta esterna e Orissa apriva
quella interna dalla quale si accedeva all’interno della prigione. Tumàn rizzò
i ciuffi di pelo sulle sue orecchie e con calma studiò il da farsi. Venne la mattina del terzo giorno. Cominciava a nevicare. Da lontano Tumàn osservò Orissa e Stepan che si avvicinavano alla gabbia. L’uomo era visibilmente ubriaco, questa volta aveva esagerato con la vodka. La sua collega se ne rendeva conto e ogni tanto lo apostrofava “Vzhe pizno, Stiupka! Pospishay!” cioè “È tardi, Stepan! Sbrigati!” Orissa entrò nel gabbiotto. Tumàn era arrampicato sul tetto, poteva osservare bene la scena. Stepan, barcollando, non aveva richiuso la porta esterna, ma la donna non se ne era resa conto, aveva uno spesso copricapo di lana grezza. Orissa aprì la porta interna e accedette allinterno della gabbia, sporgendosi fuori dalla porta della cabina di transito. Fu un attimo. Tumàn si avventò dall’alto sul collo della donna emettendo urla furibonde. Ira approfittando della situazione sgattaiolò a lato della donna, spinse la porta esterna semiaperta mandando a gambe all’aria Stepan. Poi si fermò per aspettare Tumàn. Ma Orissa era esperta. Con un forcone in mano respinse Tumàn all’interno della gabbia e chiuse la porta fatta di rete metallica. Tumàn guardò Ira. Un attimo bastò piuttosto che per mille parole. Va’ Ira, Va’. Possa lo spirito della foresta accompagnarti nel tuo viaggio. Va’, scappa di là dalle colline. Porta la mia carne, i cuccioli che partorirai là dove ci siamo conosciuti. Dove l’acqua scorre e volteggia il falco, dove regna il silenzio e l’aria profuma di muschio. Abbi cura dei miei figli.
® Riproduzione riservata. Contenuto soggetto a
copyright 2016 di Stefano di Stasio. La riproduzione, anche parziale, deve
essere autorizzata per iscritto dall’autore
Nessun commento:
Posta un commento