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sabato 19 marzo 2016

RèG:  3. MISRATÀH


testo e foto di ©  2016 Stefano di Stasio

 Mi chiamo Yussouf Al Kadr, ho 19 anni sono di Bengasi. Frequento il secondo anno di università, ingegneria meccanica. La mia famiglia prima della rivoluzione di febbraio era benestante. Mio padre è medico, mia madre ostetrica, non hanno mai sopportato Muhamar al-Gaddafi. Dicono che è un sanguinario e che sfrutta il popolo. Mio nonno Amed ripete sempre le parole di suo padre, il defunto Mohamed Al Kadr, che combatté contro l’occupazione Italiana negli anni ’30. Il tiranno di oggi è figlio degli invasori Italiani di ieri. Sul suo letto mio nonno ha un ritratto di Omar Al Mukhtar. Lo chiamavano Asad al-Ṣaḥrā “Il leone del deserto". Era della tribù beduina dei Minifa. Aveva settanta anni quando fu impiccato davanti a ventimila persone a Soluch quella mattina del 16 Settembre 1931. Il dittatore Italiano Benito Mussolini telegrafò ai giudici quando processarono Omar Al Mukhtar al palazzo littorio di Bengasi. Raccomandò di emettere una “immancabile condanna”. Fece arrestare il suo avvocato difensore d’ufficio, il capitano Roberto Lontano. Muhamar al-Gaddafi usa gli aerei per bombardare i civili, la sua gente. Ha imparato dagli Italiani che bombardarono per primi con gli aerei l’oasi di Cufra nel 1930. Usarono armi chimiche, incendiarono i villaggi. E avvelenarono i pozzi.
Finora la mia vita è stata tranquilla. Sono alto, ho la carnagione colore dei datteri e i capelli neri lisci. I miei occhi sono chiari, come il mare della Sirte. Mi piacciono molto le motociclette. Infagottato nella mia kefiah, amo la carezza dell’aria bollente del deserto, mentre sfreccio sull’autostrada che da Bengasi porta a Al Maqrun. Ora quella autostrada è bloccata dalle milizie del colonnello. Ci sparano addosso con le batterie di razzi Grad. Ho deciso di aderire alla rivolta. Con altri compagni ci stiamo preparando. Non ero abituato a frequentare la marmaglia della città, quella che chiamano adẓuẓk. Anche loro mi guardano con occhi meravigliati. Perché un ricco è passato con loro? Non importa, dobbiamo combattere ora, se Dio vuole. Salperemo stasera con una piccola imbarcazione per aiutare i nostri fratelli di Misratah. Da otto settimane sono sotto assedio. I mercenari di Muhamar al-Gaddafi hanno avvelenato l’acqua e tagliato la luce. Ci sono cecchini dappertutto. Sparano su donne e bambini. Di notte fanno rastrellamenti per le case, ammazzano e mutilano i cadaveri per impressionare la gente. I feriti non riescono ad arrivare in ospedale, perché bombardano anche le ambulanze. Ma Dio è grande. Il porto di Misratah è ancora libero. Entreremo in città passando da quella parte. Ci hanno addestrato in una settimana, alcuni amici ci hanno insegnato a usare le armi. Dio è grande.

Mi chiamo Ali Ben Jalil, ho 18 anni sono di Tripoli. Sono piccolo, ho la pelle bruciata dal sole e i capelli arricciati dalla sabbia portata dal simùn. I miei occhi sono del colore dello scorpione della notte. Frequento il primo anno di ingegneria elettronica. Vengo da una famiglia povera, mio padre vende gli ortaggi al mercato aiutato da mia madre. Ho tre fratelli e due sorelle. Appena è scoppiata la rivolta la Guardia Nazionale di Muhamar al-Gaddafi è venuta a prelevare me e i miei colleghi studenti. Ci hanno portati nel deserto ai confini con la Tunisia e ci hanno obbligati ad arruolarci nel corpo che chiamano “i guardiani della rivoluzione”. Abbiamo subito un addestramento duro di una settimana, i caporali della milizia erano molto severi. Parecchi di noi sono stati frustati. Ci hanno portato ad assistere a una esecuzione sommaria di alcuni soldati del rais che si erano rifiutati di obbedire agli ordini. Si erano rifiutati di sparare sulla folla in rivolta. Erano tutti con le mani legate dietro la schiena e in ginocchio. Ad uno ad uno sono stati giustiziati con un colpo di pistola alla nuca da un ufficiale della milizia. Ci hanno detto che questa è la fine per i traditori. Hanno sfilato loro gli anfibi dai piedi e ce li hanno consegnati. Dicono che ci serviranno. Dopo l’addestramento ci hanno portati prima a Zliten e poi a Misratah, per distruggere “il covo di cani rabbiosi” come dice il Colonnello. Ci hanno detto di sparare sui nostri fratelli, Dio ci perdoni. Per un po’ l’abbiamo fatto. Poi è successa una cosa. Un nostro compagno, Mustafà, ha fatto un prigioniero, ha scoperto un ragazzino con una bottiglia piena di benzina. L’ufficiale gli ha ordinato di sparare. Mustafà, l’ha guardato negli occhi. Lo conosco Mustafà, abbiamo studiato insieme. Ha due fratelli più piccoli della stessa età del suo prigioniero. Non ha obbedito. Il graduato ha sparato una raffica a lui e al suo prigioniero. Ho fissato la faccia di Mustafà. Un rivolo di sangue gli usciva dalla bocca, gelata in una espressione di paura. Stava lì per terra, immobile, come se abbracciasse il cadavere del ragazzino. Allora, con l’aiuto di Dio, ho capito chi era il mio nemico. Sono uscito allo scoperto. Mi sono lanciato in una corsa senza prendere fiato verso le posizioni degli shebab, protetto da una nuvola di fumo sollevata dai colpi dell’artiglieria pesante. Urlavo di non sparare e agitavo un fazzoletto. Un cecchino mi ha colpito ala gamba sinistra prima che riuscissi ad arrendermi. Ho strisciato nella polvere dietro alla carcassa di un tank. Mi hanno caricato su un pick-up e mi hanno portato in ospedale. Sono qui su una barella rossa, aspetto che venga un chirurgo. Fisso con lo sguardo i miei anfibi. Sopra ci sono ancora le macchie di sangue di Mustafà, il mio amico. Ma sono vivo, grazie a Dio. Allah è grande. Ho sentito un gemito dietro di me. Su una sedia c’è un ragazzo più o meno della stessa mia età. I lealisti del rais l’hanno colpito a una spalla. Non è un soldato di professione, si vede da come si lamenta, da quello che dice. Gli parlo, mi risponde. Si chiama Yussouf, Viene da Bengasi, Anche lui studia ingegneria.

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